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Questa pagina contiene un singolo articolo inserito il 11.05.15 18:52.

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"Madre di pietà" di Beatrice Cecaro Luigi Alviggi

Madre di pietà.jpg
La collana "SUBSTANTIA minima" della Casa Editrice "alός" è interamente dedicata alla famiglia di Sangro, per il cui maggior esponente - il Principe Raimondo di Sangro (1710 - 1771), mecenate ma soprattutto scienziato, in fama di mago per l'epoca in cui visse - è ricorso da poco il tricentenario della nascita, onorato con una mostra nella famosa Cappella Sansevero in Napoli dal titolo: "I nostri omaggi, Principe!". 
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Il luogo, zeppo di opere d'arte e di celebri artefatti, è centrato intorno al famosissimo "Cristo velato" scolpito nel 1753 da Giuseppe Sammartino su bozzetto di Antonio Corradini, un capolavoro di inarrivabile ed inspiegata maestria.

Nella stessa incomparabile cornice Beatrice Cecaro, dotta discendente ed appassionata studiosa della storia di famiglia, ha curato già diverse mostre negli anni passati. La studiosa propone adesso un libro che indaga sulle origini della Cappella stessa: Madre di Pietà - Ed. alός - 2010 - pp. 208, € 12,00.

Mauro Giancaspro, nella prefazione all'opera, ci informa dell'attento e prezioso lavoro svolto dalla Cecaro sulle fonti storiche esistenti nella locale Biblioteca Nazionale - in particolare sul "Sagro Diario Domenicano", ponderosa opera secentesca dovuta a Padre Domenico Marchese - per mettere in luce aspetti particolari fin'oggi ignorati della triste origine del luogo.

Nella Napoli vicereale del 1590, in un palazzo della famiglia di Sangro, Carlo Gesualdo principe di Venosa, valente musicista, uccise con il supporto di tre sicari la bellissima moglie Maria d'Avalos e il suo amante - l'affascinante Fabrizio Carafa duca d'Andria - colti in flagrante adulterio. Il legame durato due anni, all'inizio clandestino, era divenuto di pubblico dominio, e gli amanti sapevano anche che la vendetta non sarebbe tardata ma l'intensità della reciproca passione travalicò ogni convenienza sociale. Dopo un breve periodo di lontananza autoimpostasi, i due giovani si ritrovarono più invaghiti di prima. Minuziosa e toccante la ricostruzione fatta dalla Cecaro attraverso le numerose opere esistenti sulla vicenda, trattata persino da Anatole France. Citiamo, p.e., dalle "Cronache d'amore" edite in Napoli nel 1892:

 

"Signor Duca, più mortifero mi riesce un solo momento di vostra lontananza, che mille morti le quali potessero provenire da mio delitto. Se morirò con voi, non sarò mai lontana dal mio cuore, che siete voi! Ma se voi vi ritirerete io proverò una continua morte. Risolvetevi, dunque, o di palesarvi di sleale, con l'appartarvi, o di mostrarvi fedele con non abbandonarmi. Alle ragioni che avete dette doveva pensarsi prima, non ora ch'è lanciato è il dardo. Mi basta l'animo per soffrir il ferro, ma non il gelo della vostra lontananza. Non dovevate amarmi, ne io dovevo amar voi, se avevano da entrarvi in testa così fatti timori: insomma io così voglio, così comando, ne al mio cenno si dia replica, se non volete perdermi per sempre...".

"Signora, giacché voi volete morire, io morirò insieme con voi. Così volete, così si faccia".

 

Anche Torquato Tasso, pur amico di Gesualdo, non poté esimersi dal personale cordoglio per la tragica loro fine con il sonetto "In morte di due nobilissimi amanti", che in parte riportiamo:

 

Piangete, o Grazie; e voi piangete, o Amori,

feri trofei di morte, e fere spoglie

di bella coppia, cui n'invidia e toglie,

e negre pompe e tenebrosi orrori.

(...)

 

Piangi, Napoli mesta, in bruno manto,

di beltà, di virtú 1'oscuro caso;

e 'n lutto l'armonia rivolga il canto.

(...)

 

Il palazzo in cui gli amanti vennero assassinati nella fantasia popolare fu presto greve di maledizione, e fumi di questa si diffusero immotivatamente sui proprietari, i di Sangro. Lo stesso Benedetto Croce in "Storie e leggende napoletane" (1919), parlando di un crollo parziale del palazzo, afferma: "Anche il palazzo dei Sansevero, prossimo alla cappella, è investito da quella leggenda diabolica; e parve castigo del cielo il crollamento di gran parte di esso, che, annunziato lungo la notte da strani rumori, accadde una mattina del settembre 1889".

 

La moglie di Fabrizio, Maria Carafa di Stigliano, e la madre, Adriana Carafa della Spina, saranno le ispiratrici della fondazione del luogo sacro, pensando la Cappella come un vero e proprio voto, dettato da cristiana pietas, per l'espiazione e la salvezza finale dell'anima del congiunto. Preesisteva, sul muro di confine del luogo, una venerata immagine della Madonna della Pietà, ritenuta miracolosa. Nello stesso 1590, il duca Giovanni di Sangro I principe di Sansevero - la cui seconda moglie è proprio Adriana Carafa della Spina progenitrice dei di Sangro a venire, e perciò patrigno di Fabrizio - iniziò la costruzione della voluta Cappella che il citato Raimondo, VII Principe di Sansevero, sistemò negli anni che vanno dal 1749 al 1770.

Cappella di Santa Maria della Pietà o Pietatella, come ben presto venne chiamata dal popolo.

Maria, già per due anni in monastero prima del matrimonio, si farà monaca di clausura, con il nome di Maria Maddalena, dopo la morte del marito. Viene descritta come donna presa da grande fervore religioso fin dalla piccola età, soggetta ad allucinazioni e a penitenze corporali estreme, fino ad indossare sempre il cilicio, anche se darà a Fabrizio cinque figli. Sarà succube, nel periodo matrimoniale, della suocera Adriana, donna dispotica e di grande carisma. Il matrimonio e la mondanità saranno da lei vissute come prove per rinsaldare la sua fede. A conoscenza del tradimento coniugale, diverrà suo specifico tormento l'assillo per la salvezza dell'anima del marito, moltiplicando elemosine, preghiere ed espiazioni. Dopo l'assassinio di Fabrizio, un'altra disgrazia - la perdita del figlio prediletto di soli 12 anni - sarà vissuta come ulteriore prova imposta dal Signore per il riscatto suo e dello sventurato coniuge. Tutto verrà patito mai perdendosi d'animo, e non avendo tregua nel raccomandare se stessa ed i suoi alla Divina Pietà, confidando in un pentimento del coniuge all'ultimo istante.

Una prosa incisiva ed accorata, frutto di un amore intenso cresciuto nel seguire la mano paterna che la iniziava bambina agli infiniti segreti della Cappella, contraddistingue il lavoro della Cecaro, e la memoria del padre percorre ininterrotta le pagine del libro affiancando pietà filiale alla Pietà Divina. L'autrice è capace di parteciparci emozioni profonde che, nate dalle irripetibili sensazioni infantili, si sono rafforzate nel procedere lungo le strade della vita. Sa scavare a fondo nella psicologia dei protagonisti e, attraverso i tanti particolari storici indagati, ce li fa balzare vividi all'occhio nelle luci ed ombre che hanno contraddistinto figure nobiliari di tanto rilievo. In un abilissimo e voluto crescendo, riusciamo ad immedesimarci nei panni degli attori della torbida vicenda, percepiti come tribolati fratelli scossi da travolgenti passioni e alle cui pene prendiamo attiva parte.

In particolare le figure della moglie e della madre vengono indagate nell'essenza più intima, mettendo a nudo ogni risvolto  di due donne dalla vita spezzata, due eroine degne di una tragedia greca, che non cesseranno un attimo, per tutti i loro giorni a venire, di chiedersi perché mai il marito/figlio abbia dovuto prima cedere e poi soccombere, appena 25nne, ad eventi scatenati da forze troppo grandi per essere dominate.

Nella Cappella dovrebbe essere sepolto, in forma anonima, anche il corpo di Fabrizio.

Chiudono il libro ampi stralci tratti dai più importanti documenti storici consultati dalla Cecaro.

 

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