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Questa pagina contiene un singolo articolo inserito il 13.02.14 15:00.

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Memorie di un emigrato Enzo Di Grazia

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Le occasioni peregrine di "nostalgia della patria" mi portano inevitabilmente, dall'incanto di ingenuo narratore delle vicende aversane di un tempo, ad un senso di desolata impotenza, quando rifletto su quello che nella seconda metà del Novecento (quella che la mia generazione, per fatto anagrafico, ha vissuto direttamente) è stato fatto alla città e alle sue memorie. >>>continua>>>

Specialmente sul versante dell'urbanistica e dell'architettura, gli scempi non si contano; ma è su tutta la vita culturale della città che sembra pesare il giudizio terribile di Saba Malaspina che marchiava i fondatori Normanni di insensibilità, arrivismo, mercenarismo e mercantilismo. Il giudizio, ovviamente, si riferiva ai Normanni di Aversa del suo tempo, il secolo XI: ma, se il buon sangue non mente, c'è da temere che quello cattivo faccia bene la sua parte. Riflettendo, dunque, sulla storia culturale della città, scopro che niente ha avuto veramente spessore e continuità: i pochi esempi di iniziativa sono stati sporadici e limitati, poco seguiti e per niente sostenuti, in quasi tutti i campi, dal teatro alla musica, dalla poesia alle arti visive. E poiché è in questo campo che svolgo la mia attività, mi è capitato di riflettere su uno dei tanti tentativi sterili - tipicamente aversani, direi - di costruzione di un progetto culturale, vale a dire quello di una galleria d'arte, privata naturalmente, perché di iniziativa pubblica in questo settore non si è neanche mai tentato di parlare, a memoria umana. Le rarissime occasioni in cui sono stati operati tentativi di costituire una sala espositiva quasi non contano in nessun contesto, tanto estemporanee e provvisorie sono risultate, legate come erano per lo più all'impegno di un operatore che lavorasse "sulla pelle" o che riuscisse ad ottenere il "prestito temporaneo" di una sala da un Ente pubblico. Agli inizi degli anni '70, alcune opportune coincidenze diedero, per un attimo, l'illusione di un fervore di iniziativa, in parte per una spinta spontanea degli artisti allora emergenti, favorita dalla costituzione di un Liceo artistico che, dopo lunga gestazione, si andava concretando; in parte per la nascita di una passione per il dibattito giornalistico che in quegli anni animava la città e nel quale trovarono spazio idoneo gli appassionati che si dedicavano all'informazione specializzata. L'impegno di artisti come Galluccio, Tabarro, Conte, Della Vecchia (a cui si aggiungevano via via altri della città e della zona aversana, come Nappa, Bova e Villani) diede vita a sodalizi più o meno provvisori ai quali offrivano spazio i giornali locali, come la "Gazzetta aversana", "La Settimana" e "L'ora di Terra di lavoro" con la collaborazione più o meno specifica di redattori come Lello Moscia, Demetrio Novembrone, Giuseppe Diana,  Antonio Marino, Giovanni Motti ed altri; dalle redazioni provinciali dei giornali nazionali Enzo D'Agostino ("Roma") Giulio Amandola ("Il Tempo") ed io ("Il Mattino") sviluppammo con sempre maggiore energia cronache, commenti e critiche che approfondivano il dibattito. In quell'atmosfera presero vita le uniche costruzioni meno provvisorie che si ricordino, il "Centro d'Arte CZ" e la galleria "La Boheme" (sorta sulle ceneri di quello) che crearono in città un punto di riferimento non secondario. Non a caso, il "CZ" nacque dalla collaborazione tra me e i due pittori aversani Carmine Galluccio e Agostino Tabarro (che avrebbe successivamente cercato di trasferire l'esperienza nel "Bugigattolo" senza molta fortuna). Non fu un'esperienza lunga: solo poco più di un anno, dalla fine del 1971 agli inizi del 1973. Ma si presentò con le carte in regola per essere ambita da molta parte della cultura visiva del tempo, nel territorio; e fu salutata con entusiasmo. Si inaugurò con la personale di Giovanni Massimo (di recente scomparsa) e fu seguita immediatamente da una "avventurosa" esperienza, dal momento che la sera prima del vernissage la mostra del napoletano Vincenzo Russo, già allestita, fu visitata da un ladro che prelevò la maggior parte delle opere ma fu sorpreso dalla polizia che riportò i quadri nella sala e consentì la regolare inaugurazione. Il calendario vide susseguirsi le maggiori figure di una "scuola napoletana" allora piuttosto autorevole, da Antonio Bertè a Giamberti, da Alfonso Bottone a Ennio Bruno, da Eduardo Roccatagliata a Edmondo di Napoli. Ad essi si alternarono anche i protagonisti della cultura visiva in provincia, da Antonio Sparaco a Giuseppe Avizzano, da Andrea Martone all'acquerellista Domenico Gentile. Ma la parte più consistente fu quella riservata alle emergenze dell'agro aversano, in sintonia con la denominazione che indicava un Centro Zonale: realizzarono proprie personali i due fondatori, Agostino Tabarro e Carmine Galluccio, ma furono invitati personaggi di spicco, come Giovanni Di Giorgio, che fu poi direttore del locale Liceo Artistico, e giovani emergenti dell'agro come il frignanese Raffaele Bova e l'atellano Nico Villani. Fu un'esperienza di non lieve conto: e credo abbia contribuito in parte ad indicare la via che mi consentì di essere tra i protagonisti di iniziative che si sono mosse nella stessa direzione, come "Lineacontinua" a Caserta e "la roggia", molti anni dopo, a Pordenone. Ma si dissolse nel nulla, quasi di colpo; e per motivi che, a più di trent'anni di distanza, non mi riesce di individuare, soprattutto alla luce della fortuna che le singole mostre avevano conseguito e, più ancora, se confrontata ad esperienze di realtà parallele, come Capua e Santa Maria C.V.,  dove iniziative di sostegno alla cultura visiva contemporanea vantano almeno una decina di anni di ininterrotta attività. Ad Aversa, invece, anche i tentativi di avanzare proposte occasionali di esposizione si sono continuamente scontrati con un ambiente difficile, con l'impraticabilità degli spazi (che pure non mancano) e con una sostanziale indifferenza sia delle amministrazioni che del pubblico, finché una decina di anni fa (dopo un ultimo sofferto tentativo) non ho accettato la realtà di un territorio che in questo campo di iniziativa è capace solo di fuochi fatui, che fanno apparire e sparire sigle ed etichette da un giorno all'altro senza riuscire a costruire progetti credibili e duraturi. Fatalisticamente - e desolatamente - non resta che sperare in una sorta di miracolo (come finisce per apparire quello che diede via al "CZ")  che possa avere migliore fortuna, anche se, di miracoli, ad Aversa se ne sono visti ben pochi, anche a memoria storica; mentre di inerzie e di scempi gli esempi sono abbondanti.

 

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