Dopo il 9 febbraio 2009, qual è la situazione in merito alla vicenda Englaro?
Quando l'emotività va diradandosi, l'indicibile amarezza per la soppressione di una vita già estremamente fragile appena si attutisce e le posizioni antitetiche lasciano spazio a tentativi di dialogo, ineludibili si impongono riflessioni argomentate secondo ragione e rigorosamente fondate da cui partire. Potremmo ritenere che una capillare divulgazione mediatica tutto abbia già detto, che ognuno abbia già perfettamente chiare le dinamiche della vicenda Englaro e che abbia fatto una scelta di campo, "oggi per allora". Tuttavia la delicatezza degli argomenti e le ricadute sociali, culturali, etiche, politiche impongono supplementi di riflessioni e discernimento. La complessità della tematica suggerisce di riconsiderare alcuni degli innumerevoli aspetti meritevoli di attenzione. >>>
Iniziamo da una domanda basilare: che cosa si intende per eutanasia?
Secondo classica definizione, è "un'azione o un'omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati". Così per l'Organizzazione Mondiale della Sanità "è l'atto con cui si pone deliberatamente fine alla vita di un paziente, anche nel caso di richiesta del paziente stesso o di un suo parente stretto". Riguardo all'azione, quindi, l'eutanasia è attiva quando si procede direttamente con un'azione che induce la morte; omissiva o passiva quando non si somministra una terapia o si interrompe un sostegno vitale; terminale quando si realizza appunto su di una persona in fase terminale conseguente a grave patologia.
Si può pensare che la definizione ed il concetto di eutanasia vanno a modificarsi?
Certamente. Nel dibattito attuale, come già richiamato da Adriano Bompiani, Bruno Dallapiccola, Maria Luisa Di Pietro e Aldo Isidori, il termine eutanasia si utilizza per indicare solo forme dirette o attive di uccisione del paziente, mentre l'eutanasia indiretta o per omissione è stata ridotta al rango di un generico rifiuto/rinuncia dei trattamenti sanitari.
Quindi una vera e propria riformulazione del concetto di eutanasia?
Un tentativo di riformulazione assolutamente non condivisibile. Si assegnerebbe, in tal modo, liceità etica e giuridica ad un'azione o un'omissione che procuri la morte , allo scopo di eliminare ogni dolore, sulla scorta della sola richiesta sebbene autonoma e consapevole.
E nel caso di Eluana Englaro?
Eluana Englaro, sotto il profilo clinico, non era una paziente in stato terminale ma affetta da una gravissima disabilità. Non era morta e non era collegata ad alcuna strumentazione (es. respiratore artificiale, ecc.). Usufruiva dei comuni mezzi di assistenza, propri per quelle determinate situazioni e, tra l'altro, alimentazione e idratazione con sondino naso gastrico. Se fosse morta, come alcuni hanno ritenuto che fosse già da 17 anni, di conseguenza si sarebbe potuto ad esempio espiantare gli organi, cosa assolutamente non praticabile in quanto Eluana Englaro non rientrava affatto nei criteri della morte cerebrale totale. Voglio ricordare che Science, nel 2006, ha pubblicato un articolo che ha molto colpito la comunità scientifica: la Risonanza Magnetica Funzionale ha mostrato l'attivazione di varie zone cerebrali, in situazioni cliniche come quella di Eluana Englaro, in corrispondenza con gli inviti da parte dei ricercatori ad immaginare di salire delle scale piuttosto che di giocare una partita di tennis, in maniera esattamente uguale a quanto evidenziato nel cervello dei "soggetti di controllo" sani.
Eppure si è ritenuta lecita la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione.
Hanno ritenuto anche opportuno che la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione fosse accompagnata dalla somministrazione di sedativi! Delle due una: se Eluana non aveva alcuna percezione cosciente dell'ambiente esterno, così del dolore o di altro sentire, perché somministrare sedativi? O forse, visto che concretamente non si era del tutto certi del suo stato di completa incoscienza, si è preferito in via precauzionale somministrare sedativi? Il ricorso ai sedativi sarebbe stato motivato anche dagli spasmi muscolari per alterazione degli elettroliti, da sospensione dell'alimentazione e idratazione.
E nel dubbio sulle effettive capacità percettive di Eluana?
Una corretta interpretazione e attuazione del principio di precauzione, così giustamente propugnato in altri ambiti, avrebbe significato la non sospensione dei sostegni vitali mancando la certezza dell'assoluta assenza di coscienza. Parafrasando dalla civiltà giuridica la locuzione "in dubio pro reo": "in dubio pro vita".
L'alimentazione e l'idratazione sono terapie o cure?
Per i fautori della sospensione di alimentazione e idratazione, queste vengono considerate terapie e per tale motivo rifiutabili dal paziente, per autodeterminazione. Analizziamo senza pregiudizi e con argomentazioni logiche, almeno in linee generali il problema. Alimentazione e idratazione se inquadrabili come terapie devono curare qualcuno da qualcosa, ovvero da una patologia, da una disfunzione. Dovremmo arguire che, se terapie, alimentazione e idratazione avrebbero svolto su Eluana azione terapeutica. Quale sarebbe la malattia di Eluana che alimentazione e idratazione avrebbero tentato di curare? Quale malattia è curabile con alimentazione e idratazione così che, dopo la guarigione, si possa sospendere il trattamento in questione? La risposta, logica e non ideologica, è che alimentazione e idratazione non curano alcuna malattia, né tantomeno svolgevano azione terapeutica su Eluana. Se alimentazione e idratazione sono terapie, ne consegue che anche il neonato nutrito con latte artificiale è sottoposto a terapia, così il politraumatizzato che abbisogna del sondino o il paziente postoperatorio, o l'anziano che ha problemi di deglutizione, o chiunque necessita semplicemente di un aiuto per essere nutrito e dissetato. Non è il mezzo di somministrazione né la composizione dell'alimentazione e idratazione che cambiano la natura propria del sostegno vitale. Infatti il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere su alimentazione e idratazione di pazienti in stato vegetativo, ricorda che "il problema bioetico centrale è costituito dallo stato di dipendenza dagli altri. Si tratta di persone che per sopravvivere necessitano delle stesse cose di cui necessita ogni essere umano (acqua, cibo, riscaldamento, pulizia, movimento), ma che non sono in grado di provvedervi autonomamente, avendo bisogno di essere aiutate, sostenute ed accudite in tutte le loro funzioni, anche le più elementari."
Alimentazione e idratazione, allora, sono forme di sostegno vitale?
Si. Alimentazione e idratazione sono forme di sostegno vitale delle quali l'uomo né ha fondamentale bisogno e per tale motivo non possono essere sospese in quanto essenziali nella "umana relazione di cura", che non significa terapia né tantomeno accanimento terapeutico, bensì presa in carico, "presa in cura". Sotto il profilo bioetico si realizza così l'alleanza terapeutica medico-paziente, che si basa appunto sulla "beneficialità nella fiducia": la fiducia (di un paziente) che incontra una coscienza (del medico). Inoltre, e non secondariamente, simbolicamente dar da mangiare e da bere rappresenta la manifestazione più tangibile ed immediata della solidarietà umana.
La sospensione delle forme di sostegno vitale può essere considerata eutanasia?
Si. E' eutanasia passiva o omissiva.
Ma alimentazione e idratazione non possono essere mai sospese?
No, possono essere sospese. Come già indicato dal Comitato nazionale per la Bioetica, "non sussistono invece dubbi sulla doverosità etica della sospensione della nutrizione nell'ipotesi in cui nell'imminenza della morte l'organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite: l'unico limite obiettivamente riconoscibile al dovere etico di nutrire la persona in SVP è la capacità di assimilazione dell'organismo (dunque la possibilità che l'atto raggiunga il fine proprio non essendovi risposta positiva al trattamento) o uno stato di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all' alimentazione". Ed Eluana non si ritrovava in queste situazioni.
Che cosa si intende per atti terapeutici e che cosa per atti di cura?
Atti terapeutici sul corpo sono "le azioni propriamente mediche o chirurgiche, il cui oggetto è il contrasto o il contenimento di una patologia, esordiente oppure decorrente, ed il cui scopo è la risoluzione, il miglioramento o la stabilizzazione del quadro clinico". Atti di cura del corpo sono "le azioni che, a seconda delle condizioni dell'organismo del paziente, possono coincidere con gli atti consueti della esistenza quotidiana, eseguiti dal paziente stesso o dai suoi familiari, oppure richiedere l'intervento di personale sanitario qualificato, il cui oggetto è comunque il mantenimento dell'omeostasi entro parametri fisiologici compatibili con la vita attraverso la disponibilità di aria, acqua, elettroliti e nutrienti organici per i processi metabolici essenziali, ed il cui scopo è consentire la sopravvivenza del soggetto".
Quali conseguenze, sotto il profilo clinico ed etico, al rifiuto di un atto terapeutico o di un atto di cura?
Il rifiuto ad iniziare o continuare un atto terapeutico può comportare, indirettamente, un abbreviazione della vita. Invece il rifiuto di un atto di cura, ovvero la sospensione di un sostegno vitale, comporta direttamente ed inevitabilmente la rinuncia alla vita.
Che cosa intende per "cura"?
Premesse le considerazione in merito agli atti terapeutici ed agli atti di cura, preferisco descrivere il "prisma di cura": a. guarire dalla malattia, ove possibile e secondo il principio di proporzionalità senza ricorrere ad interventi definibili sproporzionati e futili, e b. prendersi cura del malato come "altro" e come "oltre". La terapia è un'arte tecnica, il prendersi cura è un'arte morale che appartiene al medico sempre ed anche quando nulla c'è più da fare. La terapia sproporzionata e futile non ha fondazione clinica né etica. Il prendersi cura è il fondamento della costitutiva relazionalità tra esseri umani, pertanto non può essere mai sospeso.
E' stato richiamato il principio di proporzionalità. E' possibile così definire ciò che è giusto fare o meno?
La proporzionalità terapeutica è principio di giustificazione etica e giuridica dell'atto medico. E' definibile proporzionato l'atto medico i cui benefici attesi sono superiori, o almeno uguali, ai rischi previsti. Viceversa c'è sproporzione e l'atto medico non è giustificato. La proporzionalità terapeutica costituisce, nella sua dimensione oggettiva, criterio prioritario persino a quello della volontà espressa dal paziente. Di conseguenza la terapia è doverosa quando esiste un'ampia proporzionalità tra i benefici attesi (elevati, certi) e i rischi previsti; non è doverosa se esiste una sproporzione tra i benefici attesi ed i rischi previsti (elevati, certi). Il trattamento è opzionale se esiste ancora una certa proporzionalità tra i benefici e i rischi, ma molto ristretta, cosicché spetta solo al paziente decidere se effettuare il trattamento oppure rinunciarvi, soluzioni in questo caso entrambe eticamente lecite.
Un atto terapeutico sproporzionato è accanimento?
Si. Un atto terapeutico sproporzionato e futile è accanimento. Ma necessitano alcune precisazioni. I parametri dell'accanimento terapeutico sono la valutazione in scienza e coscienza del medico e la percezione del paziente. Pertanto la definizione dell'accanimento è sempre conseguenza di una relazione medico-paziente che, se basata sull'alleanza terapeutica della beneficialità nella fiducia, consente corretta applicazione della terapia, il suo mantenimento o sospensione.
In conclusione, quali caratteri definiscono l'accanimento terapeutico?
Il persistere in terapie futili, sproporzionate, inutilmente invasive ed incapaci di arrecare alcun reale beneficio, fermo restando che ogni trattamento va valutato bilanciandone i potenziali apporti positivi (beneficialità) o negativi (neminem laedere). Comunque anche in merito all'accanimento terapeutico si cerca di riformularne il concetto. Infatti la desistenza da un supposto accanimento terapeutico è giustificabile dalla espressione di una volontà pregressa, anche se semplicemente riferita.
In contrapposizione all'accanimento terapeutico?
Certamente l'umanizzazione e la dignità del morire. Accompagnamento al morire che non significa indurre la morte, piuttosto cure normali ovvero di sostegno vitale, terapia del dolore, cure palliative.
Con l'accanimento terapeutico, e non solo, si introduce il tema della pervasività della tecnica.
Affrontare il tema della tecnica e la sua relazione con l'etica, richiederebbe una trattazione a parte. Possiamo dire, senza tema di smentite, che la tecnica svolge un ruolo sempre più preminente nella "relazione di cura" fino a negare la relazione medico-paziente. Inoltre le conseguenze della pervasività tecnica si riverberano non solo a livello assistenziale, sociale e culturale. Si assiste ad un vero disorientamento circa valori consolidati quali la tutela della vita umana, il limite degli interventi medici, il rispetto della dignità di ogni persona. Dignità, però da intendere, come valore intrinseco di ogni essere umano oltre qualsiasi stato di salute o di malattia. La tendenza postmoderna, invece, è quella di anteporre il concetto e la definizione di "qualità di vita", interpretata soggettivamente o supportata da un volere sociale, a quello di dignità. In altri termini, secondo la seguente locuzione: in quanto di scarsa qualità (es.: stato di malattia, grave disabilità, ecc.) quella vita non è degna di essere vissuta. Nello specifico della domanda, il fare tecnico richiede sempre un confronto con l'agire etico, evidentemente orientato a valori corrispondenti alla dignità propria di ogni essere umano. Senza procedure che rappresentino eutanasia né accanimento.
Eluana Englaro aveva espresso in maniera certa le sue volontà anticipate?
Per il vero il tentativo è quello di sottomettere anche le forme di sostegno vitale alla volontà individuale, pure in mancanza di certezza ed attualità. Eluana non aveva mai rilasciato, in forma certa, volontà in merito. E' opportuno ricordare che il consenso è valido se personale, consapevole, attuale, manifesto, libero e completo. Tuttavia, anche in presenza di volontà certa ed attuale non può inquadrarsi nelle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT) la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione: forme elementari, essenziali ed imprescindibili per un dignitoso morire. Bene pertanto, per le ragioni suddette, che il DdL escluda alimentazione e idratazione dalle DAT.
Le DaT obbligano il medico?
No. Le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento non obbligano il medico. La stessa Convenzione di Oviedo sui Diritti Umani e la Biomedicina, all'art. 9 richiama quanto segue: "I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione". Infatti l'art. 9 della Convenzione adotta le espressioni souhaits e wishes, che corrispondono al concetto di cosa desiderata, non di cosa imposta a terzi. Ancora, il Rapporto Esplicativo (punto 62) sull'art. 9 della Convenzione di Oviedo specifica: "questo articolo afferma che quando le persone hanno previamente espresso i loro desideri, tali desideri dovranno essere tenuti in considerazione. Tuttavia, tenere in considerazione i desideri precedentemente espressi non significa che essi debbano necessariamente essere eseguiti. Per esempio, se i desideri sono stati espressi molto tempo prima dell'intervento e la scienza ha da allora fatto progressi, potrebbero esserci le basi per non tener in conto l'opinione del paziente. Il medico dovrebbe quindi, per quanto possibile, essere soddisfatto che i desideri del paziente si applicano alla situazione presente e sono ancora validi, prendendo in considerazione particolarmente il progresso tecnico in medicina".
Quali dovrebbero essere le caratteristiche contenutistiche delle DAT?
Sono state indicate dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento del 18.12.2003 (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento): "A. Abbiano carattere pubblico, siano cioè fornite di data, redatte in forma scritta e mai orale, da soggetti maggiorenni, capaci di intendere e di volere, informati, autonomi e non sottoposti ad alcuna pressione familiare, sociale, ambientale; B. non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche, che contraddicano il diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia. Comunque il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza; C. ai fini di una loro adeguata redazione, in conformità a quanto indicato nel punto B, si auspica che esse siano compilate con l'assistenza di un medico, che può controfirmarle; D. siano tali da garantire la massima personalizzazione della volontà del futuro paziente, non consistano nella mera sottoscrizione di moduli o di stampati, siano redatte in maniera non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da chiarire quanto più è possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano poi essere prese in considerazione".
Quale comportamento, pertanto, da parte del medico?
Il medico prende in considerazione le volontà del paziente, ma deve assumere le sue decisioni in piena scienza e coscienza nell'interesse dello stesso paziente e sempre al fine della tutela della salute e della vita umana secondo precauzione, proporzionalità e prudenza. Evidentemente non può effettuare o favorire trattamenti che provochino la morte, anche se richiesti dal paziente. Infatti all'art. 17 del Codice di Deontologia Medica: "Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte".
La vicenda Englaro è indicativa di un cambiamento culturale?
Certo. La morte di Eluana Englaro ha significato la negazione del "diritto fondamentale ed universale" alla vita (art. 3, Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo), così del diritto di "cura" verso i più gravi disabili (art. 25, Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità). Inoltre il vulnus arrecato alla relazione medico-paziente è rilevante. Si tende a ridurre l'azione del medico a mera esecuzione di una volontà, derubricando dall'atto medico il fondamento ineludibile della tutela e protezione del paziente senza alcun ricorso né a qualsiasi forma di eutanasia né di accanimento terapeutico. Emerge altresì il tentativo di contrattualizzare il rapporto medico-paziente, non più "relazione di cura." Inoltre, dopo la vicenda Englaro, si tende quasi ad attribuire ai tribunali un potere legislativo sul modello del common law, non corrispondente alla tradizione giuridica italiana del civil law.
Quali prospettive per il DdL in Parlamento?
Ci sarebbe molto da dibattere in termini sia di bioetica che di biogiuridica e di biopolitica, per dare una risposta compiuta. Necessita molta attenzione e riflessione per evitare che si creino presupposti legislativi di derive antropologiche, assistenziali, giuridiche, etiche e sociali. Ed il problema è prima di tutto antropologico, oltre che scientifico e giuridico. Non necessitano fuorvianti e strumentali demagogie, né integralismi laicisti. Si richiede, piuttosto, una rigorosa laicità che riconosca all'uomo, ad ogni uomo, la sua naturale ed intrinseca dignità. Pertanto obiettivo di una legge, e compito non facile, in merito alle DaT deve essere quello di contemperare il rispetto della libertà della persona con la tutela della dignità di ogni uomo e del valore dell'inviolabilità della vita, così di ribadire il no all'eutanasia, al suicidio assistito, all'abbandono terapeutico, all'accanimento terapeutico