Chi non ricorda la celebre frase che Eduardo fa pronunciare a Gennaro Iovine, il personaggio principale dell’altrettanto celebre commedia “Napoli milionaria”? «S'add’aspettà Amà. Adda passà 'a nuttata».
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La frase pur essendo pronunciata da un povero tranviere, abitante di un “basso” napoletano che, appena ritornato dalla deportazione in Germania, assiste allo sfacelo della propria famiglia, racchiude in se una visione ottimistica del futuro. Quel napoletano, pur avendo vissuto sulla propria pelle i disastri causati dalla guerra, da poco conclusa, e pur essendo perfettamente conscio delle difficoltà che il futuro può riservare ad ogni essere umano, esprimeva in quelle poche parole, tutta la voglia di vivere di un’intera popolazione. Per quanto fosse profondo il baratro nel quale erano precipitati i napoletani, l’attaccamento alla vita e l’innata capacità di “arrangiarsi” facevano, giustamente, ritenere ad Eduardo che alla fine il buio avrebbe lasciato il posto alla luce e un intero popolo sarebbe tornato “a riveder le stelle”. Recentemente un mio amico mi ha rivolto una domanda davvero interessante: “Ma, secondo te, se Eduardo oggi fosse ancora vivo, farebbe pronunciare a Gennaro Iovine la famosa frase…? A differenza di quanto, forse, si aspettava, la mia risposta è stata: “Assolutamente no!”. Come si fa ad essere ancora ottimisti? Come si può ancora sperare che il popolo campano possa risolvere in breve tempo i suoi immani problemi? L’involuzione della società campana è iniziata già dai tempi di “Napoli milionaria” (rappresentata per la prima volta il 15 marzo 1945 al teatro San Carlo) con forme progressive d’imbarbarimento dei costumi che avrebbero fatto protendere il pensiero di chiunque verso il più nero pessimismo. Diciamocela tutta: siamo diventati la vergogna dell’intera Europa. Con una classe politica che fa letteralmente ribrezzo, una popolazione formata in parte da “neobarbari” che avrebbero fatto inorridire con i propri usi e costumi perfino i Vandali, gli Unni e gli Ostrogoti messi assieme. Per non parlare, poi, delle impressionanti differenze sociali e culturali, tra le varie “tribù” che popolano la nostra regione. Vi risparmio i particolari perché sono a conoscenza di tutti, ma voglio porre l’accento su una tra le peggiori sciagure che poteva capitarci: la sfortuna di avere una criminalità tra le più avide al mondo. Questa avidità fine a se stessa, ha precluso anche quella parte di sviluppo che, può piacere o non piacere, deriva dal reinvestimento dei proventi del malaffare nell’economia legale. Mentre, tanto per fare un esempio, con i soldi della mafia siculo-americana si costruiva un’enorme città nel deserto chiamata Las Vegas (una vera e propria fabbrica di soldi) i nostri camorristi “per un pugno di dollari” seppelliva milioni di tonnellate d’immonde schifezze sotto le loro stesse case, avvelenando se stessi e i loro figli. Ma si può essere così avidi e stolti? Ve lo immaginate un camorrista della fine dell’ottocento, mentre propone ai suoi accoliti di avvelenare le acque di TUTTI i pozzi del luogo in cui vivono? Lo avrebbero scorticato vivo. Ma tant’è, la criminalità è come la politica. È espressione diretta della società che la genera e nella quale essa opera. Ecco perché ritengo che il verso di Eduardo che, con più forza ed incisività, meglio rappresenti questa particolare fase storica della Campania, sia quello che chiude la poesia ‘A paura mia: «A mme me fa paura sulo ‘o fesso». Cos’altro aggiungere…