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Il caso Englaro tra tribunale della coscienza e tribunale della legge di Pasquale Giustiniani

bilancia.jpgLa Sezione Prima Civile (Presidente M. G. Luccioli, Relatore A. Giusti) della Suprema Corte di Cassazione ha emesso la Sentenza n. 21748 del 16 ottobre 2007. Con essa la Corte si pronuncia sull’azione promossa dal papà di una ragazza in stato di coma vegetativo irreversibile dal 1992.
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La storia giudiziaria era iniziato con il ricorso al Tribunale civile di Lecco. Il papà - che si era fatto dichiarare “tutore” della figlia ormai incapace di esprimere la propria volontà - aveva chiesto, appunto, a quel Tribunale di emettere l’ordine di interruzione dell’alimentazione forzata effettuata alla figlia mediante sondino naso gastrico. La giovane, pur essendo ancora in grado di respirare spontaneamente, e pur conservando le funzioni biologiche, era ormai diventata radicalmente incapace di vivere esperienze cognitive ed emotive, e quindi non sarebbe più riuscita avere alcun contatto con l’ambiente esterno. Nel 2006 il Tribunale di I grado aveva dichiarato inammissibile il ricorso del padre. Era sembrato ai giudici che tutti i diritti personalissimi vanno esercitati in prima persona e non possono essere delegati ad altri, neppure al papà o al tutore legale. Inoltre, il trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, essendo indispensabile a tenere in vita la persona non capace di prestarvi consenso, era stato ritenuto non solo lecito ma “dovuto”. Nutrire ed idratare una persona in situazione vegetativa permanente, si disse, è espressione del dovere di solidarietà posto a carico di coloro che accudiscono il malato. Avverso questo decreto, il papà-tutore ha proposto reclamo alla Corte d’appello di Milano. Questa, con decreto del 16 dicembre 2006, pur dichiarando ammissibile il ricorso, lo ha comunque rigettato nel merito. Ritenendo contraddittorio il provvedimento della Corte d’appello, il papà-tutore ha richiesto, perciò, la cassazione del decreto. La decisione finale cassa di fatto il decreto impugnato e rinvia la causa a una diversa Sezione della Corte d’appello di Milano, soprattutto puntando sul fatto che il Tribunale di appello avrebbe dovuto ben ricostruire la presunta volontà della ragazza e dare rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi, alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti. Procedendo per sintesi, alla Cassazione era stato chiesto dal tutore:
- di affermare, come principio di diritto, “il divieto di accanimento terapeutico, e cioè che nessuno debba subire trattamenti invasivi della propria persona, ancorché finalizzati al prolungamento artificiale della vita, senza che ne sia concretamente ed effettivamente verificata l’utilità ed il beneficio”;
- di pronunciarsi in ordine al principio che nessuno debba subire trattamenti invasivi sulla propria persona, ancorché finalizzati al prolungamento artificiale della vita, senza che ne sia concretamente ed effettivamente verificata l’utilità ed il beneficio, tenendo contro del fatto che la richiesta presentata dal tutore corrisponde alle opinioni a suo tempo espresse della ragazza.
Nella sua lunga sentenza, la Cassazione richiama alcuni rilevanti principi di ordine bioetico e giuridico, che interpellano, oltre che i giuristi, anche “i tribunali della coscienza”, soprattutto dopo il recente intervento della Congregazione vaticana per la dottrina della fede. Eccoli in breve:
- principio del consenso informato: ogni trattamento sanitario è legittimato e fondato, di norma, dal consenso del paziente: senza il consenso, l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente;
- possibilità per il paziente di scegliere non solo tra le diverse alternative di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Se la Carta Costituzionale, osservano i giudici, vede nella persona umana un valore etico in sé, è da vietare ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente;
- distinzione tra rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, ed ipotesi di eutanasia, ossia comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; il rifiuto di aderire ad una terapia proposta dal medico implica un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale;
- per quanto riguarda il tutore legale, egli, secondo la Corte, deve prestare il consenso informato al trattamento medico avente come destinatario la persona in stato di incapacità,
- principio che fa della salute un diritto personalissimo dipendente anche da valutazioni morali e religiose, per cui la stessa libertà di rifiutare le cure “presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive”;
- riconoscimento del pluralismo dei valori: nella nostra società, di fronte a chi versa in stato vegetativo permanente e che a tutti gli effetti resta persona in senso pieno (da rispettare e tutelare nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie), c’è sia chi ritiene che sia nel miglior interesse tenere in vita artificialmente il più a lungo possibile colui che è privo di coscienza; ma c’è pure chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno.
Ed ecco che riemergono, in tal modo, al di là della sentenza, i grandi temi della discussione bioetica tra credenti nonché, tra questi, e gli altri cittadini degli Stati laici: uno Stato, come l’Italia, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, dovrà rispettare anche la scelta di non aderire più al trattamento di idratazione e nutrizione artificiale? Si è soltanto di fronte ad un corpo in stato vegetativo, destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, oppure si è di fronte ad una vita che domanda di essere accompagnata a compiere il suo corso “naturale” fino alla fine? Se s’interrompono le cure e l’assistenza in questi casi estremi di stato vegetativo, giudicato dagli specialisti irreversibile, si commetterà un’azione eutanasica e soppressiva della vita, oppure si lascerà morire in pace e senza accanimenti ulteriori una persona che non ha la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno? Val la pena compiere un estremo gesto di rispetto dell’autonomia del malato in stato vegetativo permanente, smettendo l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino naso gastrico, oppure anche questo trattamento sanitario deve continuare a garantire un presidio proporzionato, rivolto al mantenimento del soffio vitale dell’organismo umano?

 

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