È questo il terzo libro di “memorie” del tempo di guerra, nel
quale il nostro infaticabile Autore (Napoli, 1927) narra, con coinvolgente
partecipazione, i fatti dei quali fu testimone giovanetto – quando non parte attiva
-, ma non nell’ambito elitario del ricordo personale bensì allargando la
visuale ai tanti eventi, per lo più funesti, di quegli ultimi anni bellici che
tanti strascichi lasceranno a seguire la folle guerra nazista che travolse
tantissimi italiani, attori e vittime. Sono, difatti: del 2008 “I giardini
rosminiani“, incentrati sull’infausta ed effimera Repubblica dell’Ossola
dell’agosto ’44; del 2013 “Il giardino degli aranci“, primo
timido anelito della volontà di voltar pagina dopo i cinque terribili anni di
guerra.
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In questa ampia rassegna l’Autore in realtà espone, in
successione concertata ed agguerrita, una sequenza di accordi fondati su
reminiscenze ma ancor più su un certosino e ciclopico lavoro di ricerca e
ricostruzione frugando tra i testi della materia. Essi valgono a configurare,
come sintesi del tutto, una compiuta sinfonia, affrescante in maniera nitida, e
purtroppo sconcertante, quella che fu la Storia di quei tragici anni, scenario
dei fatti più inconcepibilmente bestiali. L’immane catastrofe si chiuderà con
un bilancio finale di oltre cinquanta milioni di morti!
L’assonanza immediata che balza alla mente è con “Napoli ’44”,
il fortunato libro del militare inglese Norman Lewis per diversi mesi comandato
in quel periodo nella nostra città, pubblicato nel 1978. Questo Autore prende spunto dal suo diario,
in cui annotava quanto vedeva in giro o lo vedeva partecipe e, partendo da
queste scarne note, le arricchisce di parafrasi ardite, dando corpo ad un
brillante best-seller dell’epoca che descrive enfaticamente quei tragici mesi
di “segnorine e sciuscià” vissuti dai nostri concittadini in presenza
delle Forze Alleate. Nulla di più, quindi, di una pura assonanza. Se Lewis
travisa ad arte l’accaduto, esaltandone gli aspetti più impressivi, Realfonzo
si pone l’obiettivo precipuo della realtà dei fatti, e quindi il riferimento
più aderente possibile al concatenarsi degli eventi come si sono svolti.
È chiaro che questa vasta messe esposta dal Realfonzo rappresenta
un legame personale inscindibile con eventi vissuti in diretta, e dunque
toccati dalle inevitabili aporie dell’età giovanile e messi poi agevolmente a
fuoco nei decenni di ripetuto riesame fino a giungere alla perfezione acribica
della senilità:
“Io non capii, allora e fino alle riflessioni di questi ultimi
anni, che il discorso e gli estremi conati di socialismo non avessero il senso di un tentativo di ritorno
dell’ex Duce alle ribalte d’Italia e
di Europa, ma piuttosto segnassero il congedo di uno tra i protagonisti
della storia del novecento e l’inizio del
suo precipitare nel baratro della fine, e che la sua prima reticenza a
parlare a Milano per non aver nulla
da dire fosse più che giusta e, purtroppo per lui, vinta dall’ingannevole lusinga del destino; così come,
poi, non colsi il senso dell’inarrestabile sua decadenza morale, nelle sue
paniche decisioni finali che vanificarono il disegno dell’ultima ridotta inessenziale al compimento di
una bella morte ma forte
abbastanza per resistere all’assalto partigiano e consentirgli la resa agli Alleati, che gli avrebbe, credo, salvata la vita.”
Quando poi un viaggio recente nei luoghi dei percorsi giovanili
accade, e sovrappone le sue immagini a quelle rimaste nella memoria e caricate
dai tanti significati inconsci cumulati nelle varie rivisitazioni, ecco che la
nuda realtà ha l’effetto di una scolorina irriguardosa e indesiderata, che
lascia tramortiti per l’enorme divario creatosi tra l’oggi ed il remoto,
riducendo in pezzi in certo qual modo il flusso ininterrotto dell’esperienza.
C’è, in questi volumi, materiale enorme per ulteriori analisi di
dettagli e sviluppi di integrazioni, che i cultori a venire sapranno estrarre
dalle tante pagine scritte e dalle centinaia di minute note a corredo.
L’ “aria esilarante della libertà”, spirata avventatamente
dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, avrà vita breve. Milano nel ’44 reca
immani e devastanti ferite, nella popolazione nelle case e nei monumenti,
causate dagli innumerevoli bombardamenti dei quattro anni precedenti e dalla
estesa distruzione del tessuto sociale che ha residuato solo terrore diffuso e
fame acuta. Quest’ultima è ancor più accentuata dall’esistenza di una borsa
nera, inaccessibile ai più, che drena ulteriormente le poche risorse
reperibili, sottraendole alla gran massa dei cittadini. Problema, peraltro,
gravissimo in tutte le grandi città di quei giorni. Per un giovane che si
prepara alla maturità, un ambiente tetro ed oppressivo, al quale gli obblighi
del coprifuoco conferiscono ulteriore severità, e le uniche “pazzie” permesse
sono il sostare nel cortile interno del palazzo d’abitazione con i pochi
coetanei ivi dimoranti, o l’ascolto di un brano jazz, ultimo grido per quei
tempi in fatto di musica, che apre la fantasia alle sterminate praterie,
naturali e mentali, del continente americano. Tra gli italiani esplodono
Alberto Rabagliati e Natalino Otto ma – la gioventù è gioventù – i flirt
nascono anche dove meno appare possibile, complice, questa volta, il buio
dell’oscuramento.
Della fine del ’44 è il proclama del Generale Alexander –
Comandante delle Forze Alleate in Italia – ai patrioti italiani, ai quali, in
vista dell’incipiente inverno, egli raccomanda prudenza nelle operazioni su
vasta scala, mantenendosi vigili per cogliere l’occasione propizia e colpire
solo in tal caso il nemico con minor rischio. Un errore madornale: per la
troppa pubblicità collegata, per il funesto effetto psicologico sui partigiani
già a mal partito, e per il ringalluzzimento indiretto delle truppe tedesche!
L’agonia si palesava ancora lunga anche nella mente degli Alleati.
Rafforzato dalle enormi distruzioni provocate dalle V2 lanciate
sull’Inghilterra, il fondato terrore delle ultime fasi di guerra fu che la
Germania riuscisse a sviluppare, e quindi utilizzare, le famose armi segrete,
cui anche Mussolini aveva fatto cenno, e alle quali stavano lavorando centinaia
di scienziati tedeschi. La misericordia divina non permise quest’ultimo dramma,
ed il compimento della fase finale da parte dei tecnici tedeschi trapiantati –
ricordiamo tra tutti Werner Von Braun – avvenne negli USA, e a farne le spese
saranno le terrificanti stragi di Hiroshima e Nagasaki dell’agosto ’45. L’arma
più potente nella storia dell’uomo aveva tristemente visto la luce.
Il prefatore Fulvio Papi – filosofo e scrittore triestino, già
Direttore del giornale “Avanti” –
ricorda la sua esperienza, recatosi a Meina dopo la strage di ebrei ivi
compiuta da parte delle SS della Divisione “Adolf Hitler”:
“Arrivai in bicicletta da
Stresa a Meina per vedere luogo e figure della tragedia. Cercai di parlare
(allora con un decente tedesco) con
un giovane SS che troncò il brevissimo dialogo
dicendo che i suoi parenti a Dùsseldorf erano “alles gestorben”. Sebbene ragazzo, compresi
subito che il solo scambio possibile
con loro era la morte. Non è un bel sentimento dal quale poi si guarisce senza
residui, ma allora, ragazzo, mi trovai a viverlo e a governarlo come potevo.”
Milano fu anche luogo dell’ultimo
discorso pubblico di Mussolini del 16 dicembre al Teatro Lirico. Una sorta di
ritorno alle origini, ricordando che il duce debuttò in politica come socialista
e fu anch’egli Direttore dell'”Avanti”
dal ’12 al ’14, passando poi a fondare “Il
Popolo d’Italia“. È di questi ultimi scorci il progetto di una ridotta in
Valtellina, con i fedelissimi e con il possibile finale di un passaggio in
Svizzera ed una resa diretta nelle mani degli Alleati.
Almerico Realfonzo – brillante
ingegnere e docente universitario, autore di vari testi tecnici – indulge alle
imposizioni del suo pregnante vissuto, movendosi egregiamente nei mille
labirinti di una testimonianza storica di tutto rilievo. Ha dalla sua il dono
di una prosa agevole ed icastica, che racconta e, ad un tempo, scolpisce,
dinanzi l’occhio del lettore attento, il bassorilievo delle vicende di tanti
eroi, gloriosi e sconosciuti, scomparsi nei mille meandri di un evento storico
tanto complesso e prolungato.
“E
come potevamo noi cantare
con
il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo? …”
(S.
Quasimodo: Alle fronde dei salici – 1947)