Donne protagoniste assolute in
questo bel libro della giapponese Kakuta che in patria ha venduto oltre il
milione di copie – successo devo dire meritato – e, tradotto in diverse lingue,
ne sono stati tratti in patria un film ed una serie tv. Imponente come mole, è
scritto in uno stile piano, in larga parte in forma di diario, che si lascia
leggere con facilità. Gli uomini sono pochi, figure marginali anche se motori
con il loro agire – come fin troppo spesso accade – delle vicende narrate.
Kiwako è una giovane e bella
laureata di Tokyo che, a inizio anni ’80, si impiega come addetta alle
Pubbliche Relazioni in una industria di abbigliamento. Nel compilare i profili
dei nuovi impiegati per il bollettino aziendale, compie un errore madornale:
scambia la foto di uno di essi, Takehiro, con un altro. Quando va a scusarsi
questi, per perdonarla, le chiede un invito a cena. >>>continua>>>
Da qui cominciano i guai per la
giovane che presto ne diviene l’amante e rimane incinta di lui, uomo sposato.
Abortendo, qualcosa non va per il giusto verso lasciandola sterile per sempre.
La moglie, Etsuko, non tarderà a scoprire la tresca e inizia a perseguitarla
con telefonate astiose ed offensive. Kiwako, figlia unica senza affetti
familiari ma con una discreta fortuna lasciatele dal padre, deve affrontare
tempi difficili per la relazione tormentata e per non avere la forza di
troncarla. Non è tanto l’amore ad essere l’ostacolo quanto la paura della
totale solitudine e quel sentirsi completamente vuota di futuro per l’impossibilità
di procreare che la gelida moglie le rinfaccia spesso al telefono. Poi anche
Etsuko rimane incinta e la situazione, se da un lato migliora, dall’altro
convince la giovane che questo rende sempre più remota l’eventualità di un
legame diverso con l’amante. Quando l’altra partorisce, la minorazione nei suoi
confronti raggiunge il massimo, vaga senza meta, preda di malesseri e incubi
densi di fantasmi. E il tempo non fa che peggiorare il contesto.
Licenziata, conoscendo
l’abitazione della coppia e studiandone le abitudini, accerta che la mattina la
bimba rimane sola per un breve intervallo quando la madre accompagna il marito
al treno per il lavoro. Passati alcuni mesi, diventa imperativo il vederla,
deve soddisfare almeno in parte il desiderio di maternità frustrato, è come se
quel piccolo essere fosse in parte suo, come se il legame con il padre avesse
stabilito con lei una parentela, un qualcosa che non gliela rende estranea.
Deve e vuole vederla a tutti i costi e, quasi in trance, è forzata ad andare alla
casa ed attendere il momento propizio per la visita programmata.
Al trovarsi sola dinanzi la culla
prende la bimba piagnucolante in braccio e questa si calma. È l’immagine della
beatitudine che fa tutto scordare, si sente un’altra donna, sente l’appagamento
crescere quasi abbracciasse sua figlia, quasi avesse realizzato il sogno per
sempre vanificato, quasi che quell’esserino fosse frutto delle sue viscere.
L’unione non può avere fine, non le importa più di nulla, tutto il mondo è
racchiuso tra le sue braccia, si apre una prospettiva altrimenti
irraggiungibile, un soddisfacimento vicario che rappresenta comunque una nuova
vita che può schiudersi, in barba al deludente amante e alla perfida moglie che
tanto male le ha fatto. È sua e nessuno potrà togliergliela, la piccola diviene
parte inscindibile da sé e quello che doveva essere un incontro di momenti si
trasforma in una continuità alla quale in nessun altro modo potrebbe accedere.
“Afferra il pomello della porta e
lo gira senza far rumore. E gelido come un pezzo di ghiaccio. Quella sensazione
di freddo sembra suggerirle che ormai è troppo tardi per tor-nare indietro.
(….)
Non intendo far nulla di
particolare, voglio solo guar¬dare, voglio dare un’occhiata alla bambina,
ripete a se stessa infinite volte, mentre si sfila le scarpe. E poi basta,
andrò via e non mi rifarò mai più viva. (….)
Eccola, la vede, la bam¬bina è li
che agita braccia e gambe, si lamenta, la voce che si fa via via più
squillante. Il succhiotto le è caduto accanto al cuscino, l’estremità
tondeggiante che luccica madida di saliva.
Kiwako percepisce come uno stridio
metallico all’in¬terno del capo. Sembra crescere di pari passo con il pianto
della bambina. E, quando i due suoni finiscono col sovrapporsi, ha quasi
l’impressione che la voce della piccola pro¬venga da dentro di sé. (….)
Quel corpicino è così tenero, così
caldo, è talmente delicato che potresti distruggerlo in un niente, ma possiede
un’elasticità tale da farlo sembrare invulnerabile. Così fra¬gile, eppure così
forte. Le piccole mani della bambina col¬piscono ripetutamente le guance di
Kiwako. Sono umidicce, morbide e calde. Non posso andarmene via e lasciarla
qui, pensa Kiwako. Io non l’abbandonerei mai, nemmeno per un solo minuto. Le
vorrei un bene dell’anima e la pro¬teggerei in eterno… Ti proteggerò per
sempre, piccolina, dal dolore, dalla tristezza, dalla solitudine e da ogni
preoc¬cupazione, e anche dalle cose brutte e crudeli della vita. Ti
proteggerò… Kiwako non riesce a pensare ad altro, la sua mente è come
bloccata su quell’unico pensiero, che si ripete a mo’ di una formula magica: ti
proteggerò, ti proteggerò per sempre, in eterno!
La bambina continua a sorriderle
dolcemente, stretta al caldo tra le sue braccia, senza mai distogliere lo
sguardo. Come a volerla prendere in giro, confortare, riconoscere e perdonare.”
La decisione è istantanea. Fugge
con la bimba in seno avvolta nella coperta e, scappando, inciampa nella stufa
elettrica che cade a terra.
La storia di Kiwako emerge a pezzi
nel romanzo. Tutta la prima parte del libro è dedicata a questa fuga a due,
scappando da tutto e da tutti. Sarà una lunga odissea, toccando molti posti ma
con la fortuna di trovare sempre qualcuna ben disposta. Dopo essersi rifugiata
per poco da un’amica di università, mentendo sulla realtà, la lascia per altre
mete, attenta a mantenersi nell’ombra. A sostenerla è l’affetto infinito che
riversa sulla bimba – battezzata Kaoru
-, maggiore di quello di una madre, sarà sempre dolcissima con lei, il sommo
bene insperato che è giunto a illuminare i suoi giorni, mentre tutta la nazione
si interessa al rapimento e, dopo passi in direzioni sbagliate, si individua in
lei la responsabile della sottrazione.
La Kakuta (Yokohama, 1967),
laureata e specializzata in letteratura, ha vinto i più importanti premi
letterari giapponesi. Nel libro, del 2007, si rivela attenta alla psicologia
della gente comune e, insieme, a tener dietro alla realtà: i personaggi
pretendono spazio e l’Autrice è abile ad evitare battute d’arresto e a
stimolare suspense, con il risultato che l’opera, non un thriller né un noir,
si legge avidamente. Ancora, spesso la sua prosa diviene poetica, mossa
dall’aura sottile dei ricordi – di Kiwako, di Eri – che arrivano ad apparire
personali da quanto sono partecipati. Di recente è stata ospite dell’Istituto
di Cultura Giapponese di Roma appunto per l’uscita di questo libro in Italia.
La sua trama – confessa – è stata ispirata non da fatti di cronaca, che pure
sono numerosi nel settore, ma soltanto dall’immaginazione. A fine libro c’è un
glossario esplicativo dei termini giapponesi intraducibili. Una curiosità, in
Giappone il cognome precede sempre il nome della persona, quindi la nostra
Autrice è Kakuta Mitsuyo. Una diceria del paese pretende che le cicale passino
sette anni nella terra e, una volta affiorate, vivano solo sette giorni:
“Ora che sono diventata adulta,
credo che in fondo non sarebbe una grande tragedia se tutte le ci¬cale
morissero dopo una settimana di vita, per il semplice motivo che avverrebbe la
stessa cosa per tutte, non ci sa¬rebbero differenze. Insomma, a nessuna di loro
verrebbe da chiedersi perché deve morire così presto, no? Ma come la mettiamo
se una sola cicala sopravvivesse oltre quel fatidico settimo giorno? Che cosa
succederebbe se tutte le altre mo¬rissero e solo lei restasse in vita? (….)
Quella cicala dell’ottavo giorno avrebbe la possibilità di vedere cose che
tutte le altre non hanno potuto vedere. Certo, forse alcune di quelle cose
avrebbe preferito non vederle mai, ma altre, non così orribili, potranno darle
almeno un po’ di gioia…”
È la filosofia ispiratrice del
romanzo. Non importano difficoltà e sacrifici affrontati, per Kiwako il
rapimento è stato l’unico mezzo per conoscere gioie che le sarebbero state
sempre negate, le è stata donata una seconda vita insperata che ha assicurato
qualche anno indimenticabile, sole – lei e Kaoru – contro il resto del mondo. E
il canto fragoroso delle cicale, ripetuto nel libro, sarà il mantra di
scansione dei burrascosi avvenimenti.
Sempre in cerca di sicurezza,
Kiwako approda alla “Casa degli Angeli” insieme con Kumi, altra candidata, che
sarà la sua migliore amica in quel luogo. Si tratta di una Comune di sole donne
ora sterili e bambine, a metà tra setta maniacale e convento paranoico, in
isolamento quasi totale dall’esterno e, sempre mentendo e spacciando la piccola
per figlia, chiede di entrare a farne parte. Lo slogan della Casa è: “solo
rinunciando ai nostri averi possiamo essere davvero liberi”, che la dice lunga
sugli obiettivi. Ma la donna, pur di ravvivare la speranza di restare unite per
sempre, è pronta a rinunciare ai milioni ereditati. Dopo trafile e colloqui è
ammessa, come Kumi, a divenirne membro permanente. Può rilassarsi, per oltre
due anni godrà la quiete gioendo della crescita di Kaoru e della felicità
vissuta tra le alte mura. All’interno persone più o meno strambe ma dalle
braccia aperte verso lei e la bimba. Poi, genitori vengono a protestare fuori
al cancello chiedendo la restituzione della figlia, secondo loro plagiata e
trattenuta illegalmente. I clamori protratti richiamano l’attenzione della
stampa e dei media sul singolare Istituto. Kiwako comprende che la pace è
finita e deve scappare di nuovo. Lo fa di soppiatto. Kumi, non si sa come,
capisce e riesce a passarle l’indirizzo dei suoi, esortandola a tenersi la
piccola.
E lì va, ad incontrarsi con la
madre, Masae, gestore di un ristorantino, che è troppo sorpresa dalla visita e
si limita solo ad ammirare la piccola. L’aiuterà in seguito, tirandola fuori
dal lavoro di pulizie in un love hotel, pessimo ambiente ma primo asilo
trovato. Si apre un’altra oasi di pace, Masae è affettuosa ed arriva a cercarle
addirittura marito. Sarà una foto rubata, scattata dal pretendente alla festa
del paese, a vincere un concorso ed essere pubblicata sui giornali nazionali.
Kiwako fiuta il pericolo ma questa volta non fa a tempo, l’arrestano sul molo
in attesa di un traghetto verso la libertà, separandola dalla bimba. L’assoluta
felicità è durata meno di quattro anni, lei sconterà una pena di otto anni per
il rapimento e l’incendio non voluto dell’abitazione.
Passa il tempo ed Erina cresce,
ora è universitaria e lavora di sera in un bar. Non lo sa, ma il destino le sta
facendo ricalcare molti dei passi della effimera madre putativa. In primis
Kishida, l’amante, sposato con un figlio di due anni, bugiardo professionista,
che vuol liquidare e non riesce a trovarne la forza.
“Quando gli sto lontana mi sembra
di essere perfettamente in grado di dimenticarmi di lui. Ma quando ni riappare
davanti cambia tutto e non so più cosa fare.”
I 18 rintocchi degli anni la colpiscono
tutti insieme una sera dopo il lavoro attraverso Malon, compagna di giochi
nella Casa, oggi Chigusa, svanita dalla memoria. Attraverso le sue parole si
presentano immagini, ambienti, pezzi di ricordi, frammenti di un’altra vita che
affiorano dal dentro. L’amica di allora è lì per scrivere la storia di Eri. Più
grande di otto anni non ha dimenticato, anzi, con il tempo crescono i perché
irrisolti. Non che Eri ignori la vicenda ma ha scelto di non pensarci.
Attraverso i dialoghi, inizia a riappropriarsi del passato e quindi di se
stessa, e arriva a confessare che il vero rapimento è stato il giorno in cui
l’hanno ricondotta dai genitori, non prima. Fa luce sui primi giorni con loro,
la sorellina Marina, gli strani comportamenti familiari. Tenterà inutilmente di
fuggire, dopo poco, alla ricerca della felicità perduta. Rispetto ai bei giorni
passati, stridente la vita di oggi con i suoi, affettuosi ma lontani, lui
alcolizzato lei assente, caotici, mai
d’accordo, con la madre a far pesare su di lei i riflessi negativi di
quanto accaduto. E Eri continua a cumulare sulla rapitrice tutto ciò che non va
nella vita di oggi e nei rapporti con la famiglia.
Sarà un’altra odissea, di tipo
diverso ma non meno lacerante, nella ricostruzione di un sé troppo frammentato
dagli eventi e troppo vessato da affetti discordi. La nuova Eri sarà allora
capace di tracciarsi la strada, incinta di Kishida non glielo confesserà e,
fortificata dal nuovo amore che cresce dentro, saluterà per l’ultima volta,
ringraziando per quanto le ha dato, l’uomo frastornato dal desiderio ma non
toccato dall’amore. Informerà la famiglia solo per chiedere un prestito quando
avrà già tutto deciso, si rinforzerà nel legame divenuto più che fraterno con
Chigusa, e riaccoglierà in sé la bimba quattrenne cacciata via da tanto,
ricostruendo dalle fondamenta la SUA casa con la verità che si è sempre negata:
“Non volevo che finisse, la vita
impossibile che condu¬cevo insieme a quella donna. La desideravo così tanto che
non avevo esitato, in un giorno d’inverno, ad andare via di casa nella speranza
di ritrovarla. Solo che non riuscivo ad ammetterlo. Col passare degli anni,
crescendo, mi ero con¬vinta che non dovevo nemmeno lontanamente desiderare di
tornare da lei, quella donna malvagia che mi aveva por¬tata via, la strega più
cattiva del mondo. Persuadendomi che fosse tutta colpa sua se non ero stata
capace di ambien¬tarmi a casa mia e se i miei genitori non mi avevano con¬cesso
l’affetto necessario, ero riuscita a rendermi la vita un po’ più facile. Odiandola,
avevo trovato un briciolo di pace. E odiavo i miei genitori perché avevano
lasciato che interfe¬risse nella nostra famiglia. L’odio era il mio rifugio, la
mia unica e sola fonte di conforto.
Ma adesso non volevo più odiare.
Me ne ero appena resa conto, per la prima volta. Non volevo più odiare
nes¬suno. Né quella donna, né mio padre e mia madre, né tanto meno il mio
passato. Certo, ero riuscita a rendermi la vita più semplice, almeno in
apparenza, ma avevo finito col rin¬chiudermi in uno spazio angusto con le mie
stesse mani. E quanto più profondo era il mio odio, tanto più opprimente e
asfissiante diventava il luogo in cui mi ero segregata.”
È un’altra donna, anche se il
destino, balzano ed insaziabile, non le risparmierà un ulteriore scherzo.
“Kiwako scuote adagio il capo,
come a volersi liberare di quelle immagini che le riempiono la mente, poi
emette un sospiro. I suoi ricordi diventano ogni giorno più nitidi, ma non per
questo più vicini. Anzi, ha la netta sensazione che l’intensificarsi di tale nitidezza
contribuisca a rendere quei ricordi più lontani. E quanto più lontani essi si
rendono, tanto più intensi diventano i loro colori. La memoria degli esseri
umani è davvero crudele.”