Cosa ne è stato dello Statuto del contribuente nei quasi sette anni intercorsi dalla sua approvazione; in che modo le norme di civiltà giuridica in esso contenute hanno inciso sui comportamenti concreti dell’amministrazione finanziaria, del legislatore, dei consulenti fiscali, degli stessi contribuenti; come si può giudicare il tentativo, da esso compiuto, di istituire una nuova figura di mediatore tra fisco e cittadini, il “Garante”; cosa si dovrebbe fare per tenere sotto controllo la spirale preoccupante della fiscalità locale, sono i temi al centro dell’intervento svolto dal Presidente della Commissione finanze del Senato, Giorgio Benvenuto, ad un convegno svoltosi il 12 febbraio presso la Scuola di Polizia Tributaria. Intervento che siamo lieti di pubblicare integralmente.
Lo Statuto dei diritti del contribuente è ormai vicino a compiere il settimo anno, essendo stato approvato in seconda lettura dal Senato il 12 luglio del 2000. Una data che ricordo in modo particolare, perché concluse un lungo impegno per il varo di questo provvedimento da parte del Parlamento e in particolare della Commissione Finanze della Camera, che allora avevo l’onore di presiedere.
Più volte infatti in precedenza il Parlamento aveva provato a mettere in discussione proposte di legge dello stesso tenore. Il primo progetto venne presentato alla Camera dall’on. le Franco Piro nel settembre del 1990 e ripresentato nel ’92. Seguirono altri progetti di legge a firma dei parlamentari Renato Strada, Massimo Scalia, Rossano Caldeo. Tutti questi progetti erano “costituzionali”, e cioè prevedevano la modifica di uno o più articoli della Costituzione, operazione come è noto estremamente difficoltosa, e questo può giustificare il fatto che nessuno di essi riuscì ad essere approvato neppure da una Commissione.
La storia vera
La storia vera dello Statuto si può dire cominci quindi dal settembre ’96, ossia dal momento della presentazione di un progetto di legge ordinaria ad opera dell’allora Ministro delle finanze, Vincenzo Visco, che assorbirà poi altri progetti parlamentari. Il d.d.l. Visco trovò una prima approvazione presso il Senato nell’aprile 1998, una successiva approvazione (con numerose modifiche) da parte della Camera nel marzo 2000 e una definitiva approvazione da parte del Senato, come ho già detto, nel luglio 2000. E’ il caso di osservare che se non fosse stato licenziato prima delle ferie estive certamente lo Statuto sarebbe stato posposto – alla ripresa dell’attività parlamentare – ad altri impegni legislativi più pressanti quali i collegati alla finanziaria e la stessa finanziaria 2001. Con la conseguenza che molto probabilmente, data l’imminente scadenza elettorale, non ce l’avrebbe fatta a vedere la luce neanche in quella legislatura.
In sede di discussione alla Camera, come ho già detto, avemmo modo, anche con la collaborazione dell’allora Sottosegretario Marongiu, di apportare numerose modifiche al testo trasmesso dal Senato: ad esempio stabilendo che quando si verifica in modo definitivo che l’imposta non era dovuta o era dovuta in misura minore di quella accertata, il fisco è tenuto a rimborsare il costo della fideiussione che il contribuente ha dovuto chiedere per ottenere la sospensione del pagamento o la rateizzazione; prevedendo l’estensione progressiva delle compensazioni a tutti i tributi; sottolineando la “gratuità” dell’informazione distribuita per via telematica dall’amministrazione finanziaria.
Una precisazione, quest’ultima, particolarmente importante se si tiene conto delle tentazioni, che si presentavano allora all’interno di molte amministrazioni, a monetizzare l’informazione giuridica creando dei piccoli business di vendita al pubblico di leggi, circolari e risoluzioni. In contrasto, però con i principi allora oramai acquisiti dalla coscienza civile, che considera assurdo che i cittadini, dopo aver contribuito con pesanti sacrifici alle spese dello Stato, vengano obbligati a pagare un ulteriore balzello per accedere alle leggi la cui conoscenza è indispensabile per assolvere i propri doveri tributari. Tra l’altro, conoscendo i risultati delle passate attività imprenditoriali dello stato, dalle miniere ai panettoni, c’è da credere che l’e-commerce di normativa via Internet – per il quale occorrerebbe, ovviamente, creare apposite e costose bardature burocratiche – avrebbe procurato solo utili irrisori se non addirittura nuovi deficit. A fronte di queste tentazioni, oltretutto contrastanti con la natura dell’Internet (in cui la gratuità è – ancora – la regola), è importante che lo Statuto, esplicitamente affermando la gratuità dell’informazione diffusa per via elettronica, abbia implicitamente ribadito che l’accesso alle disposizioni di legge e amministrative costituisce un diritto fondamentale del cittadino.
Il significato della legge
Senza fermarmi sulle altre correzioni apportate nella discussione presso la Commissione Finanze della Camera – tra le quali desidero solo citare i miglioramenti apportati alla figura del Garante del contribuente ribadendo, ad esempio, l’autonomia di cui deve godere nei confronti dell’amministrazione, escludendo che i suoi membri, come ipotizzato dal Senato, dovessero essere necessariamente pensionati, prevedendo per loro un compenso e un rimborso spese – mi interessa mettere in evidenza il significato complessivo della legge: la quale rappresenta, a mio avviso, un passo storico verso l’ampliamento dei diritti di cittadinanza. Un progresso sostanziale sulla strada di una effettiva par condicio tra amministrazione e contribuente, tra Stato e cittadino.
Poiché parlo in una sede certamente a conoscenza dell’argomento, mi limito a ricordare per sommi capi le norme che in vista di questo obiettivo pongono a carico dell’amministrazione una serie di obblighi del tutto nuovi:
l’obbligo di assumere iniziative volte a consentire la completa e agevole conoscenza delle disposizioni legislative e amministrative vigenti nella materia, anche curando la predisposizione di testi coordinati e mettendo gli stessi a disposizione dei contribuenti presso gli uffici;
l’obbligo di assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati, che devono essere comunicati nel luogo di effettivo domicilio, quale desumibile dalle informazioni in possesso della stessa amministrazione, o di altre amministrazioni, ovvero nel luogo ove il contribuente ha eletto domicilio speciale ai fini del procedimento;
l’obbligo – a pena di nullità – di invitare il contribuente a fornire i chiarimenti necessari o i documenti mancanti dandogli almeno 30 giorni prima di procedere a iscrizioni a ruolo o di negare un rimborso;
l’obbligo della motivazione degli atti e dell’indicazione negli atti stessi, e in quelli dei concessionari della riscossione, delle autorità a cui ricorrere e dei termini e modalità del ricorso, con l’indicazione dell’organo competente a riesaminare l’atto in sede di autotutela;
l’obbligo di rispondere entro 120 giorni, sotto pena che scatti il silenzio assenso, ai quesiti rivolti dal contribuenti per conoscere, in caso di obiettiva situazione di incertezza, l’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali.
Altre innovazioni importanti riguardano:
il divieto di irrogare sanzioni al contribuente per comportamenti derivati da istruzioni date dall’amministrazione o da ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa;
l’istituzione di un organismo “terzo” (il Garante) che ha il potere di presentare richieste di documenti e chiarimenti agli uffici, rivolgere loro raccomandazioni, richiamarli ai rispetto delle norme dello Statuto o dei termini dei rimborsi, accedere alle loro sedi per controllarne l’agibilità al pubblico, attivare l’autotutela, segnalare norme o comportamenti suscettibili di produrre pregiudizio per i contribuenti;
la previsione di specifici vincoli per lo svolgimento delle verifiche esterne, affermando in concreto il principio, di origine penalistica, che anche nei confronti del contribuente – almeno fino a prova contraria – si presume l’innocenza e non l’evasione. In particolare si stabilisce, come ben vi è noto, che le verifiche esterne devono essere svolte “sulla base di esigenze effettive”, in modo da recare il minimo intralcio possibile alle attività del contribuente, e non devono durare, di regola, più di 30 giorni. Il contribuente che ritiene che i verificatori stiano procedendo con modalità non conformi alla legge può rivolgersi anche al Garante del contribuente. E’ inoltre previsto che il Ministro delle Finanze, sentiti i direttori generali del Ministero e il Comandante generale della Guardia di finanza, emani un codice di comportamento che regoli le attività del personale addetto alle verifiche tributarie, aggiornandolo eventualmente anche in base alle segnalazioni delle disfunzioni operate annualmente dal Garante.
I vincoli per il legislatore
Accanto ai vincoli per l’amministrazione la legge prevede una serie di vincoli per lo stesso legislatore. Si tratta in primo luogo di norme rivolte ad assicurare la piena comprensibilità delle disposizioni di legge. A questi fini si stabiliscono diversi obblighi e divieti:
le leggi che non hanno un oggetto tributario non devono contenere disposizioni di carattere tributario, a meno che non siano attinenti all’oggetto della legge stessa;
i richiami di altre disposizioni contenuti nei provvedimenti normativi in materia tributaria si fanno indicando anche il contenuto sintetico della disposizione alla quale si intende fare rinvio;
le disposizioni modificative di leggi tributarie devono essere introdotte riportando il testo conseguentemente modificato.
Altri vincoli per il legislatore riguardano la necessità di rispettare la par condicio evitando di pesare sul contribuente in modo eccessivamente oneroso dal punto di vista amministrativo o di alterare troppo disinvoltamente le regole del gioco. Tra questi vanno citati:
il divieto di prorogare di anno in anno i termini a disposizione dell’amministrazione per gli accertamenti
il divieto di prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dall’entrata in vigore o dall’adozione dei provvedimenti di attuazione in esse previsti
il divieto di prevedere modifiche ai tributi periodici da applicare solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni
il divieto di utilizzare il decreto legge per introdurre nuovi tributi od estendere ad altri soggetti quelli esistenti
la possibilità di introdurre disposizioni tributarie con effetto retroattivo solo in casi eccezionali e solo con legge, qualificandole espressamente come tali.
La buona fede
E un ultimo principio affermato nella legge, per concludere questo rapido esame, mi sembra doveroso evidenziare, quello della buona fede. Un principio che come una bussola – ne troviamo ovunque le tracce all’interno dello Statuto – deve orientare il rapporto tra amministrazione e contribuente. Un rapporto certo mai facile, spesso conflittuale, ma che mai, secondo lo Statuto, deve diventare un rapporto di scontro frontale, di ostilità preconcetta, di prevaricazione. Al dovere del contribuente di pagare correttamente le imposte si contrappone il dovere dell’amministrazione di giocare correttamente con lui: il che vuol dire rispettare la sua personalità e dignità, tenere conto della sua possibilità di commettere errori senza che ciò autorizzi a mettere automaticamente in discussione la sua buona fede, a sua volta ammettere e correggere i propri errori. Lo Statuto arriva a dire, con una punta di ottimismo della volontà, che i rapporti tra amministrazione e contribuente sono improntati, oltre che al principio della buona fede, a quello della collaborazione. Fisco e contribuenti collaborano insieme per la corretta applicazione delle norme tributarie, in una visione in cui le imposte – nello spirito della Costituzione – rappresentano un dovere sociale dei cittadini e non un modo, come amava sostenere un personaggio a tutti ben noto, di mettere le mani nelle loro tasche.
Gli attori
Mi sembra doveroso a questo punto fare qualche considerazione sull’applicazione concreta avuta dalla legge. La domanda da porsi è in che modo, in questi quasi sette anni, i principali attori del rapporto in cui la legge si è inserita ed ha operato – l’amministrazione, i contribuenti, la giurisprudenza, il legislatore, il Garante – abbiano dato applicazione, per quanto li riguardava, alla lettera e allo spirito dello Statuto. Approfondire questo tema richiederebbe una ricerca specifica, al limite addirittura – data la sua importanza politica – un’apposita indagine parlamentare. Non posso quindi che limitarmi, in questa sede, ad alcuni accenni sommari.
1. L’amministrazione
Il giudizio sull’impatto delle nuove norme sull’amministrazione, salvo alcune eccezioni, deve essere, a mio avviso, sostanzialmente positivo. L’amministrazione, sia civile che militare, ha seguito, e in alcuni casi addirittura anticipato, la svolta dello Statuto.
I tempi lunghi di approvazione della legge hanno pesato, infatti, anche sul rapporto tra i contenuti del provvedimento e la realtà dell’amministrazione. Lo Statuto, come abbiamo detto, “nasce” in Parlamento, a livello progettuale, nel ’96 e viene approvato nel 2000. Questi quattro anni di gestazione sono gli anni in cui l’amministrazione finanziaria, grazie all’impulso dell’allora ministro Visco, compie un’autentica rivoluzione copernicana. Nascono in questo periodo il fisco telematico, la dichiarazione unica, le compensazioni, le rateazioni, si realizza un sistema di comunicazione con i contribuenti che rende più trasparente la liquidazione delle dichiarazioni, si potenzia l’attività di informazione con l’utilizzo avanzato di Internet e delle nuove tecnologie; si introduce con circolare l’interpello, si vara l’autotutela, si generalizza il ravvedimento, si porta a regime l’accertamento con adesione, si regola con Direttiva del Ministro lo svolgimento delle verifiche, si riforma e si umanizza la disciplina delle sanzioni, si creano le Agenzie indipendenti.
Il fisco con il quale i contribuenti devono confrontarsi al momento in cui sta vedendo la luce lo Statuto è, in sostanza, profondamente diverso da quello a cui aveva fatto riferimento l’originario progetto di legge. Molte delle norme di questo provvedimento appaiono perciò alquanto “spiazzate” dall’evoluzione che nel frattempo hanno subito le regole del rapporto per effetto dei vari decreti delegati di riforma del fisco. Tanto per fare un solo esempio, l’affermazione solenne contenuta nell’art. 8, primo comma, secondo cui “l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione”, che poteva sicuramente apparire rivoluzionaria nel ’96, al momento in cui il progetto era stato presentato, suona del tutto irrilevante nel 2000, quando i contribuenti, grazie all’F24 e al modello Unico, hanno già potuto effettuare quasi 50.000 miliardi di compensazioni tra imposte e contributi. Vorrei dire, in altri termini, che mentre lo Statuto inteso come legge quadro del sistema tributario rimaneva in discussione nelle aule delle Commissioni parlamentari, il sistema invece camminava, e anzi correva verso traguardi che per certi versi erano più avanzati di alcune previsioni della legge. Tanto che solo in extremis siamo potuti intervenire – e a volte, devo ammetterlo, in modo neppure troppo felice – per aggiornare talune norme del progetto che suonavano ormai anacronistiche nel mutato contesto della normativa tributaria.
Il nuovo modello di amministrazione
Il modello che a livello amministrativo, anche con la creazione delle Agenzie, si cercava in quella fase di realizzare era basato su principi di efficienza e di imprenditorialità ma anche orientato al rispetto rigoroso dei diritti e delle esigenze del cittadino. “Un modello – come si esprimeva testualmente una Direttiva del ministro – “basato non sull’autoritarismo ma sulla cooperazione e sul rispetto reciproco, oltre che sui criteri di trasparenza e di partecipazione, di certezza dei diritti, di snellezza delle procedure”.
Un processo certo difficile, sicuramente non ancora del tutto compiuto, ma indubbiamente agevolato dalle norme dello Statuto: prima tra queste, ad esempio, la norma che elimina le sanzioni per violazioni meramente formali che, come sappiamo, colpivano spesso in modo pesante il cittadino, senza alcun nesso con la sua reale pericolosità fiscale. Ma più che le modifiche delle norme effettuate in applicazione dello Statuto, sono significative – come spia del cambiamento – le decisioni che l’amministrazione finanziaria ha preso di sua iniziativa, spesso andando al di là della lettera della legge. Cito ad esempio la scelta di inviare un avviso alle imprese di grandi dimensioni per preannunciare una verifica, rinunciando al famoso “effetto sorpresa” ma inaugurando uno stile di rapporti meno poliziesco e più collaborativo.
E particolarmente importanti mi sembrano le decisioni – prese più volte – di accettare come validi comportamenti del contribuente che l’amministrazione di una volta avrebbe ignorato tranquillamente perché privi di alcuni requisiti di ordine formale: ad esempio le decisioni di rispondere “comunque” alle istanze di interpello, anche se formalmente inammissibili, di dare validità alle richieste di rimborso e ai ricorsi trasmessi per errore a un Centro di servizio soppresso trasferendoli d’ufficio al nuovo Centro di servizio, di accettare le istanze di accertamento con adesione consegnate alla posta entro i trenta giorni, anche se pervenute agli uffici dopo tale termine; di accettare i versamenti in euro effettuati senza rispettare in modo preciso le regole dell’arrotondamento; di considerare validi i pagamenti fatti il giorno successivo alla scadenza quando questa coincideva con uno sciopero generale. Così come va ricordata la scelta di applicare la sanzione per le violazioni minori, in caso di mancata presentazione dell’F24 a saldo zero.
L’interpello
Tra le attività positive dell’amministrazione è doveroso citare inoltre lo svolgimento dell’interpello: un istituto che importammo dalla prassi francese ma che configurammo, all’epoca, in modo anche più ampio e comprensivo di come era realizzato in quel Paese. Tanto che all’epoca l’amministrazione aveva forti preoccupazioni sulla possibilità di far fronte nei tempi stretti previsti dallo Statuto alla mole di richieste di parere che, si temeva, questa innovazione avrebbe scaricato sugli uffici. Fortunatamente queste preoccupazioni sono risultate infondate, e l’amministrazione non solo ha risposto tempestivamente a tutti i quesiti ad essa pervenuti ma ha spesso dato risposta anche a quelli che – per mancanza di qualche requisito di forma – sarebbero stati inammissibili o irricevibili. Un comportamento che interpreta il vero spirito dello Statuto e di cui occorre senz’altro rendere atto alla Direzione competente.
Attraverso l’interpello, ma anche attraverso tutte le varie attività di comunicazione come quelle esercitate attraverso i siti Internet, la banca dati delle leggi e della prassi amministrativa, le pubblicazioni, i call center, si può dire, in sintesi, che l’amministrazione abbia rispettato in termini concreti il diritto riconosciuto dallo Statuto all’informazione, alla conoscenza degli atti, all’essere messi al corrente della corretta interpretazione delle norme. Un’attività informativa a 360 gradi che forse nessuna amministrazione in Italia svolge con altrettanto impegno ed efficacia.
Le verifiche
Un ultimo indiscutibile progresso di cui vorrei parlare riguarda infine il campo – notoriamente delicato – dell’attività di controllo, che sempre più si cerca di svolgere in modo trasparente, vincolato da regole severe di garanzia del cittadino e da precise metodologie.
Nello svolgimento delle verifiche si tende oggi, sia da parte dell’Agenzia delle entrate che dell’amministrazione militare, ad indirizzare le indagini sugli aspetti sostanziali della posizione del contribuente, riducendo al minimo i controlli di natura formale.
Sono lontani ormai i tempi del famoso barbiere di Mentana, sanzionato per aver rilasciato ricevute fiscali invece di scontrini – o viceversa, non ricordo bene. Non aveva evaso neanche una lira eppure subì (senza poi pagarla, ovviamente) una multa di 9 miliardi di lire. Erano episodi come questo a dare l’immagine di un fisco debole con i forti e forte con i deboli, che andava alla caccia di disattenzioni e violazioni formali dei piccoli contribuenti – facili da rilevare – e non era in grado di rintracciare i grossi imponibili abilmente mascherati. Tutto questo innescò fermenti di rigetto nell’opinione pubblica e la norma dello Statuto di cui ho già parlato, che stabilisce che le sanzioni non vanno irrogate quando la violazione si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta (articolo 10, terzo comma) è nata anche da qui. Così come sono nate da qui le disposizioni dell’articolo 11, che disciplina in modo dettagliato diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifica.
Considerando tutte queste innovazioni si può dire che oggi la relazione tra verificatori e contribuente è radicalmente cambiata. Si evita di intimorire, si riduce al minimo – anche per migliorare il rapporto costi benefici – la presenza in azienda cercando di renderla, nello stesso tempo, meno vistosa e minacciosa. Anche per il contribuente sottoposto a verifica si presume ormai l’innocenza, non più la colpevolezza.
I punti critici
Ma non vorrei tracciare un quadro tutto luci, esistono anche le ombre. Una di queste mi sembra l’insistenza, di cui si è data prova in qualche occasione, ad estendere in modo retroattivo determinate facoltà o poteri di controllo qualificandoli norme procedurali e non sostanziali. Si può citare ad esempio la circolare con cui si sono estesi i maggiori poteri di controllo sulle attività finanziarie previsti dalla Finanziaria 2005 anche alle annualità precedenti, ossia con riguardo alle violazioni commesse in un’epoca in cui tali possibilità non esistevano. Capisco le esigenze in base a cui vengono fatte scelte di questo tipo, ma mi sembra che molti dubbi possano essere avanzati sulla conformità di queste scelte allo Statuto. Sapere che una certa violazione tributaria, non necessariamente commessa per volontà di evadere, non poteva essere individuata tramite controlli bancari poteva essere una garanzia per il contribuente, garanzia che adesso viene meno: non solo per il futuro, come sarebbe logico, ma anche per il passato. E’ difficile negare che in questi casi ci si trovi di fronte ad aspetti che attengono alla sostanza e non alla forma del rapporto fisco-contribuente, e che chiamano in causa i principi dell’affidamento e della buona fede.
E devo citare anche la circolare con la quale un anno fa si è data applicazione, anche al di là della lettera della legge, alle altre norme della Finanziaria 2005 che hanno previsto l’obbligo di fornire i dati catastali (compresa la particella, il subalterno e altri dettagli) dell’appartamento in cui abitiamo, quando le aziende della luce, dell’acqua e del gas lo richiederanno – per passarli all’Anagrafe tributaria – in occasione di ogni rinnovo contrattuale. Una specie di catasto elettrico di poco felice memoria, invasivo oltre il lecito e assai poco giustificato in una fase in cui il catasto dovrebbe essere in grado di fornire direttamente all’Agenzia delle entrate tutti i dati e gli incroci di cui quest’ultima può avere bisogno, senza necessità di prendere di petto il proprietario o peggio l’affittuario dell’appartamento. Che non conoscendo questi dati si dovrà attivare – chiedendoli al proprietario o conducendo in proprio una ricerca presso gli uffici del catasto – per reperirli e trasmetterli all’ente erogatore.
Ma c’è di più, perché l’obbligo di comunicazione dei dati catastali, partito da quest’anno (e già cominciano ad arrivare le prime proteste) scatta anche in occasione di banali modifiche tariffarie. Addirittura la semplice modifica del voltaggio dell’energia elettrica comporta l’obbligo di comunicarli nuovamente. E non ha nessuna importanza – ha avvertito con grande disinvoltura l’Agenzia – che gli stessi dati siano eventualmente presenti presso altre banche-dati in possesso dell’Amministrazione finanziaria: non ha nessuna importanza, cioè, che questi obblighi vengano imposti in totale contrasto con il divieto – stabilito espressamente dall’articolo 6, comma 4, dello Statuto – di richiedere al contribuente documenti e informazioni già in possesso dell’amministrazione.
E per quanto riguarda l’amministrazione c’è un ultimo aspetto che sicuramente è tutt’altro che positivo, quello dei rimborsi. Certo diminuiti negli anni ma ancora tali, per la loro consistenza, da gettare ombre oscure sul rapporto con i cittadini. Credo che finché restano decine di migliaia di contribuenti in attesa anche da più di dieci anni di entrare in possesso di somme indebitamente trattenute dall’erario il nostro Stato non possa certo vantarsi della modernità e della civiltà del suo sistema fiscale. Quando si discute su come utilizzare il surplus di risorse che quest’anno affluirà in misura molto maggiore di quanto inizialmente previsto alle casse erariali – e tutti si scontrano per propagandare questa o quella destinazione – sarebbe auspicabile ci si ricordasse di queste annose partite di debito che sarebbe doveroso saldare una volta per tutte.
2. I contribuenti
Quanto ai contribuenti, non è facile capire quanto la percezione dello statuto sia entrata nella coscienza collettiva. Molti hanno tratto benefici da questo incivilimento del rapporto tributario senza rendersi conto dei fattori che l’avevano determinato. Quello che è visibilmente cambiato è invece il rapporto con i consulenti: che da professionisti dei ricorsi e gestori obbligati del conflitto si sono lentamente riconvertiti in gestori del confronto sui terreni dell’accertamento con adesione e degli studi di settore, della conciliazione, dell’autotutela; trasformandosi in interlocutori non più solo delle commissioni tributarie ma prima di tutto dell’amministrazione finanziaria, in una logica di composizione consensuale dei conflitti. Decisamente un grande passo avanti, anche se in questo nuovo tipo di rapporto non mancano le spine, se è vero che molto spesso questi professionisti si sentono trasformati in specie di “operatori esterni” dell’amministrazione, che spesso e volentieri scarica su di essi – con una specie di “outsourcing” a basso costo se non a costo zero – adempimenti che a stretto rigore non sarebbero di loro competenza. Ritengo che questo del rapporto con i professionisti sia uno dei temi “caldi” da affrontare con ragionevolezza, cercando di ascoltarli con maggiore attenzione, di tenere presenti i loro suggerimenti, di farsi carico nei limiti del possibile dei loro problemi, in modo da evitare una conflittualità che non avrebbe francamente ragione di esistere.
In questo senso anche la Commissione da me presieduta è sempre a disposizione per ascoltare suggerimenti e segnalazioni.
Scarso impegno infine si è invece visto da parte delle associazioni dei consumatori, per le quali il tema fiscale – salvo eccezioni, peraltro non sempre felici – è ancora fuori dagli interessi per loro dominanti. E questo è sicuramente un peccato.
3. La giurisprudenza
Un ruolo trainante nell’applicazione dello Statuto – e sono veramente lieto di rilevarlo – è stato svolto sin dall’inizio dalla giurisprudenza, in particolare quella della Suprema Corte di Cassazione. Non c’è dubbio che l’orientamento dell’amministrazione in senso più rispettoso dei diritti del cittadino ha trovato un supporto e uno stimolo importanti nelle sue decisioni.
E’ il caso di ricordare alcuni principi fissati dalle massime della Corte:
dal divieto di disposizioni retroattive in materia tributaria sancito dallo Statuto sono escluse quelle favorevoli al contribuente (sentenza n. 5931 del 21 aprile 2001)
la centralità della motivazione nel procedimento di accertamento tributario, sancita dall’art. 7 dello Statuto, fa sì che il ricorso ad elementi offerti da altri documenti, non conosciuti dal contribuente né a lui comunicati, è legittimo solo se sono allegati all’atto che li richiama o in esso riprodotti (n. 15234 del 3 dicembre 2001)
nel caso in cui il contribuente deduca nel giudizio tributario che la prova di una determinata circostanza a lui favorevole emerge dalla documentazione detenuta dall’amministrazione finanziaria, questa è tenuta a pronunciarsi in maniera espressa e non generica sull’effettivo possesso degli atti in questione, in forza del principio di collaborazione fra p.a. e privati, confortato dalla legge n. 212/2000, da cui deriva una diversa costruzione dei loro rapporti anche in materia di distribuzione dell’onere della prova (n. 14141 del 14 novembre 2001)
in applicazione dei principi di cooperazione, collaborazione e buona fede introdotti dallo Statuto del contribuente, l’istanza di rimborso è idonea ad impedire che scatti il termine di decadenza anche se presentata ad un ufficio incompetente (n. 9407 del 6 maggio 2005).
Ma soprattutto è importante l’affermazione (fatta dalla sentenza n. 4760 del 30 marzo 2001) sul significato dell’art. 8 della legge n. 212. Secondo la Cassazione questo articolo – che postula un inquadramento dei rapporti tra Fisco e contribuente tendenzialmente paritario – congiungendosi con l’art. 1, secondo il quale le disposizioni dello Statuto costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario tendenti ad attuare gli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione e non derogabili se non in modo espresso da altre leggi, assume un preciso valore interpretativo. Si tratta, cioè, di un principio che deve aiutare l’interprete a ricavare dalle norme il senso che le renda compatibili con i principi costituzionali citati.
Come si vede, quest’ultima sentenza costituisce un vero e proprio “manifesto” con il quale la Corte fa assumere allo Statuto del contribuente il ruolo di strumento in grado di verificare la legittimità di tutte le disposizioni vigenti in materia tributaria e di orientarne l’interpretazione.
In sostanza lo Statuto, secondo la Cassazione, non fa altro che rendere espliciti a livello legislativo principi immanenti nel dettato costituzionale. Per effetto delle “clausole rafforzative” contenute nell’articolo 1 dello Statuto stesso, i criteri espressi o direttamente desumibili dal testo di questo provvedimento assumono una funzione che la Corte definisce “di orientamento ermeneutico”. Per conseguenza – cito testualmente – “il dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria, che attenga ad ambiti materiali disciplinati dalla legge n. 212 del 2000, deve essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai principi statutari”.
Per il tramite di questa giurisprudenza i principi della buona fede, dell’affidamento, della collaborazione, diventano dunque i cardini di un più civile sistema di rapporti tra Stato e cittadini e costituiscono, in sostanza, la fonte di una nuova Carta materiale di diritti che integra e arricchisce la stessa Costituzione.
4. Il garante
L’istituzione del Garante è stato il tentativo – per la verità riuscito solo in parte – di creare una nuova figura di mediatore tra l’apparato tributario e i contribuenti più deboli. La tentazione, che alcuni di noi ebbero per un certo tempo, di farne una vera e propria Authority fu presto schiacciata dalle resistenze dell’amministrazione da un lato, del Tesoro dall’altro. La Carta dei diritti del contribuente è stata una legge fatta a costo zero, un matrimonio con i fichi secchi. Questa era un’altra delle condizioni per farla passare. Così con il Garante è nata una figura in tono minore, di fatto subordinato – per i locali, il personale, le risorse tecniche e informatiche – a quelle stesse direzioni regionali che aveva il compito di controllare; fornito di poteri anch’essi in tono minore, mai tali da poter determinare in concreto una svolta nelle prassi operative degli uffici. C’è da dire tra l’altro che questa figura è nata in una fase in cui l’amministrazione stessa, come ho prima rilevato, stava realizzando una svolta di grande portata in direzione di una maggiore sensibilità verso i diritti del contribuente (abbiamo sentito in qualche occasione da parte dei responsabili dell’amministrazione affermare – orgogliosamente e anche in un certo senso giustamente, io credo – “il Garante siamo noi”). Il Garante è nato, quindi, in una fase in cui si sentiva molto meno il bisogno di realizzare dei contropoteri per bilanciare un’amministrazione che andava sempre più perdendo il suo carattere vessatorio e autoritario.
E d’altra parte non si può dire che lo stesso Garante, salvo eccezioni, abbia esercitato con eccessivo mordente il suo ruolo. Anzi a volte lo ha esercitato, a quanto risulta, in modo riduttivo, ad esempio astenendosi dall’intervenire per richiamare l’ufficio – in caso di grave ed evidente errore, rilevato anche dalla Commissione tributaria – ad esercitare l’autotutela, solo per il fatto che l’ufficio stesso aveva già impugnato la decisione. Senza rendersi conto che con ciò disapplicava sia le regole sull’autotutela – che va esercitata in ogni momento, anche in pendenza di giudizio qualora ne esistano i presupposti – sia i propri compiti. Al contrario di quanto sostenuto anche in documenti ufficiali di alcuni Garanti del contribuente, non è affatto scritto infatti nello Statuto che il Garante debba evitare di interferire in vicende e questioni che formano oggetto di giudizio dinanzi ad Organi giurisdizionali; né che il Garante stesso non possa sindacare l’esercizio, da parte dell’Amministrazione finanziaria, del diritto di proporre impugnazione avverso una sentenza ad essa favorevole.
Di fronte alle difficoltà oggettive che ostacolano il funzionamento di questa istituzione e all’interpretazione minimalista e riduttiva che danno spesso del loro ruolo alcuni dei suoi stessi rappresentanti non resta, a mio avviso, che cercare di intervenire con uno specifico provvedimento legislativo.
Un intervento di questo tipo mi sembra opportuno, se non indispensabile. Certo, che l’amministrazione voglia esercitare essa stessa un ruolo di garante del contribuente è un atteggiamento che le fa onore, e che non può essere che incoraggiato. Tuttavia ci sono e ci saranno sempre momenti in cui per forza di cose il rapporto tra fisco e contribuente da collaborativo diventa conflittuale, e in cui ciascuna delle due parti tende a realizzare i propri obiettivi e i propri interessi in contrasto, anche forte, con l’altra. Ed è a questo punto – considerata l’asimmetria di poteri e di risorse che caratterizza il conflitto tra le due parti – che è giusto e auspicabile vi sia la possibilità dell’interposizione di un soggetto terzo che assicuri la tutela del più debole e un maggiore equilibrio al rapporto. E questo terzo non può essere che il Garante, non però il Garante di oggi, ma un Garante opportunamente corredato di mezzi maggiori e di poteri più incisivi.
In questa direzione va appunto il disegno di legge che ho presentato la scorsa legislatura alla Camera e riprodotto nella presente al Senato – dove è registrato con il n. 1193 – che spero possa essere presto discusso e approvato, con il quale si propone di rendere il Garante più indipendente dandogli anche una più precisa collocazione nel quadro delle autorità di garanzia, di accrescere i suoi poteri e di estendere la sua competenza anche al di là dei tributi erariali, ai quali oggi è confinato, nei rapporti cioè con la fiscalità delle regioni, delle province, dei comuni. Fiscalità che diventa sempre più rilevante e sulla quale spenderò qualche parola tra poco, alla fine di questo intervento.
5. Il legislatore
Ho lasciato per ultimo il legislatore perché – devo essere obiettivo – rappresenta il punto più critico. Non ho difficoltà a dire che proprio il soggetto che è stato autore dello Statuto è quello che in questi anni meno ha sentito il dovere di rispettarlo. Come abbiamo visto, l’ambizione dello Statuto era anche quella di introdurre nuove garanzie per il contribuente non solo sul piano amministrativo ma anche su quello legislativo, difendendolo da imposizioni retroattive, assicurandolo contro la fissazione di nuovi adempimenti entro termini tali da rendere estremamente gravosa la loro esecuzione o contro una tecnica di produzione legislativa – quella cosiddetta degli inserti “chirurgici” – che rende estremamente difficile, e riservata agli specialisti, la comprensione delle norme.
Le prescrizioni sulla forma delle leggi sono, ovviamente, quelle più disattese. Basta leggere qualunque finanziaria per vedere che le norme dello Statuto sulla “chiarezza e trasparenza delle disposizioni tributarie” sono sistematicamente disapplicate. Come già ho ricordato, l’art. 2 richiede espressamente che l’oggetto principale delle disposizioni tributarie sia esplicitamente richiamato nel titolo; che i richiami ad altre norme riportino anche il contenuto sintetico della disposizione a cui si fa rinvio; che eventuali disposizioni modificative delle leggi tributarie siano introdotte riportando il testo normativo integrato con le modifiche stesse. Tutto questo in teoria. Ma nella realtà, il contribuente che cerca di capire una qualunque legge finanziaria si trova di fronte a disposizioni costruite in tutt’altro modo.
Basta prendere a caso un qualunque comma delle ultime finanziarie, la 2006 e la 2007, ad esempio come questo:
All’articolo 22, comma 1-bis, del decreto legislativo 22 dicembre 2000, n. 395, così come da ultimo modificato dall’articolo 3 del decreto legge 30 dicembre 2004, n. 314, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° marzo 2005, n. 26, le parole «30 giugno 2006» sono sostituite dalle seguenti «31 dicembre 2007»
o come questo:
all’articolo 23 del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, sono apportate le
seguenti modificazioni:
a) le parole: « 1° gennaio 2008 » e « 31 dicembre 2007 », ovunque ricorrano, con
esclusione dei commi 3 e 4, sono sostituite rispettivamente dalle seguenti: « 1° gennaio
2007 » e « 31 dicembre 2006 »;
b) al comma 5:
1) nel primo periodo, la parola: «erogate» è soppressa;
2) nel secondo periodo, le parole: «alle prestazioni maturate» sono sostituite dalle seguenti: «ai montanti delle prestazioni accumulate»;
c) al comma 7, nelle lettere b) e c), le parole: « alle prestazioni pensionistiche maturate » sono sostituite dalle seguenti: «ai montanti delle prestazioni accumulate».
Come è facile vedere, il testo delle leggi così modificate, che secondo lo Statuto dovrebbe essere riportato “in chiaro” in modo da renderle comprensibili, può invece essere ricostruito solo dopo una ricerca laboriosa tra una serie di provvedimenti anteriori a loro volta ripetutamente modificati, una ricerca possibile solo a soggetti specializzati che ne posseggano gli strumenti tecnici e culturali (tra i quali, salvo eccezioni, non figurano neanche gli stessi deputati chiamati ad approvarle).
Di fatto, l’autore delle leggi che impongono obblighi a carico del cittadino sceglie deliberatamente di non comunicare con lui. Come già avvertiva il nostro grande Maestro di civiltà giuridica Cesare Beccaria quasi trecento anni fa, l’oscurità delle leggi mette il cittadino completamente nelle mani di altri soggetti, quelli che oggi chiamiamo mediatori professionali: magistrati, consulenti, avvocati, notai. E l’insensibilità del legislatore verso questo pericolo dimostra un’insensibilità verso i principi stessi della democrazia.
Meccanismi perversi
E’ chiaro che anche personalmente non posso chiamarmi fuori da questa situazione e assumo certamente la mia parte di responsabilità, anche se è a tutti noto il meccanismo perverso di “prendere o lasciare” che si instaura ogni volta a fine anno con l’emendamento monstre di centinaia (e quest’anno migliaia) di commi che il governo deposita sui banchi dei parlamentari nell’ultimo istante utile. E la cui mancata approvazione può comportare conseguenze politicamente anche assai rilevanti, come la fine del Governo e magari della stessa legislatura. Anche per questo credo che sia ormai un obbligo di civiltà abbandonare finalmente – e già dalla prossima Finanziaria – questo sistema. Governo e Parlamento dovranno fare la loro parte, e se non la facessero, penso che un rinvio alle Camere da parte della Presidenza della Repubblica di una Finanziaria concepita ancora con le stesse forme degli anni precedenti – quella che è stata definita non una legge ma una “poltiglia legislativa” – potrebbe obbligare tutti gli attori di questa vicenda a rientrare finalmente nell’ambito non solo dello Statuto ma della Costituzione.
Accanto a queste violazioni di carattere formale – ma credo che mai come in questo caso le questioni di forma diventino di sostanza – ci sono le altre violazioni sul terreno degli obblighi di fare e di non fare che sono posti al legislatore dallo Statuto. Violazioni molto numerose, visto il grande uso che si è fatto del sistema della deroga espressa che consente di approvare norme retroattive ovvero di stabilire adempimenti a carico del contribuente con decorrenza immediata e quindi senza rispettare i termine dilatori previsti dallo Statuto.
Cito solo alcuni tra i moltissimi esempi di deroga offerti in questi ultimi anni:
il decreto legge 30 settembre 2000, n. 268, contenente “Misure urgenti in materia di imposta sui redditi delle persone fisiche e di accise”, e la relativa legge di conversione (la n. 354 del 23 novembre 2000), che per non doversi ripetere ha addirittura previsto, con un apposito “articolo 01” premesso al decreto, l’esenzione in blocco dall’applicazione dello Statuto dell’intero provvedimento
la legge 18 ottobre 2001, n. 383, contenente deroghe in materia di agevolazioni fiscali
il decreto legge 30 settembre 2005, n. 203 e la relativa legge di conversione, contenenti deroghe in materia di decorrenza degli acconti Ires ed Irap.
Tra le ultime disapplicazioni tramite deroga possiamo citare quelle del decreto legge 262 del 3 ottobre 2006, e poi del comma 324 della Finanziaria 2007, in materia di auto aziendali, e del comma 79 della stessa Finanziaria, in materia di acconto Irpef.
Ma cospicue disapplicazioni dello Statuto erano arrivate già all’indomani della sua approvazione a dicembre 2000, con la Finanziaria 2001, che tranquillamente calpestava un altro principio di civiltà giuridica da esso affermato, e cioè il divieto di prorogare i termini a disposizione della amministrazione finanziaria per gli accertamenti. E anche in seguito il legislatore non ha avuto remore a trasgredire più volte questo principio, da ultimo con la Finanziaria 2005, che ha spostato di un ulteriore anno i termini per gli accertamenti dell’Ici e per i controlli sulle dichiarazioni.
Non serve scagliarsi contro i mulini a vento
Naturalmente bisogna essere realisti, la politica ha le sue emergenze e le sue regole, e nel processo di formazione delle leggi il Parlamento è sovrano. La mediazione tra gli interessi che si realizza in quella sede non è limitata dalle leggi precedenti e incontra un solo limite, quello della Costituzione. E come dicevo all’inizio, i tentativi di fare dello Statuto una legge di rilievo costituzionale sono falliti. Se noi alla fine degli anni Novanta avessimo cercato di seguire questa strada saremmo andati incontro allo stesso fallimento e forse oggi non staremmo neppure qui a parlare di Statuto dei contribuenti. Il massimo che abbiamo potuto realizzare allora è stato una legge “rinforzata”, derogabile solo dietro esplicita dichiarazione ma comunque derogabile.
Che essa lo sia stata – e che lo sarà ancora in futuro – è quindi un fatto normale, che dobbiamo accettare. Quello che non dobbiamo accettare, però, né come politici né come amministratori ed operatori né come cittadini, è che questo fatto diventi abituale e sistematico, giacché così si calpestano i diritti del contribuente, si prevarica il cittadino in favore dello Stato, si compromette il tasso di civiltà del nostro ordinamento giuridico e del nostro stesso sistema sociale.
Non bisogna accettarlo anche perché, se è vero, come ha detto più volte la Cassazione con quelle sentenze che prima ho citato, che lo Statuto non fa altro che rendere espliciti dei principi che sono immanenti e impliciti nella Costituzione, è evidente che una violazione insistita e ripetuta dello Statuto diventa un vulnus della stessa carta costituzionale. Chi ha operato questo vulnus se ne assume la responsabilità politica, ma chi ha il potere-dovere di vigilare sulla conformità delle leggi alla Costituzione non dovrebbe più assistere senza intervenire a queste violazioni.
Ci vuole trasparenza anche sul peso dei tributi
Ma c’è un ultimo aspetto su cui vorrei spendere qualche parola prima di concludere. Lo Statuto è basato, lo abbiamo visto, su alcune parole d’ordine fondamentali, e una tra queste è la trasparenza. La prima forma di trasparenza riguarda gli effetti economici delle leggi. Sapere quanto incide sulle loro tasche una legge come quella finanziaria è un preciso diritto dei cittadini. E qui non si può accettare che circolino tabelle ispirate a esigenze di propaganda da parte del governo da un lato e dell’opposizione dall’altra. Credo che si dovrebbe trovare o negli uffici studi in qualche modo opportunamente collegati dello stesso Parlamento o nella Banca d’Italia o nell’Istat o nell’Isae o con la collaborazione di tutti questi enti insieme un centro di verifica autorevole e istituzionalmente neutrale che dia la necessaria trasparenza agli effetti di provvedimenti così rilevanti.
Una seconda forma di trasparenza, ancora più rilevante, riguarda l’ammontare complessivo della tassazione gravante sui cittadini. E’ forse abbastanza agevole verificare qual è la pressione fiscale erariale, ma è assai più difficoltoso – con il via libera dato negli ultimi tempi alle tasse di scopo, alla revisione degli estimi, alle addizionali regionali provinciali e comunali aumentabili quasi ad libitum in relazione all’indebitamento pregresso – determinare qual è la pressione, anche molto diversa nel territorio, che grava in modo complessivo sul cittadino. Pressione che purtroppo – e la cosa è sotto gli occhi di tutto, gli stessi sindacati sono fortemente preoccupati – rischia di dare luogo a una spirale di prelievi in grado di restringere pericolosamente il reddito disponibile dei cittadini.
Non dovrebbe forse esistere in quest’ambito un livello di guardia da non superare? E’ questo un problema di cui in passato si è parlato più volte, in certi casi anche auspicando l’introduzione di un tetto costituzionale agli inasprimenti fiscali. Quanto si vuole chiedere al massimo al cittadino come contributo per il funzionamento dello stato e per la solidarietà sociale: il 30, il 40, il 50, il 60 per cento dei suoi redditi? esiste un limite a queste richieste? Si può arrivare a piacere fino al 70, all’80, al 90 per cento? Anche chi, come il sottoscritto, considera il pagamento corretto delle tasse un dovere ineludibile del cittadino non può non essere preoccupato – lo ha detto anche un soggetto autorevole e indipendente come il Governatore della Banca d’Italia – di un’escalation della pressione fiscale data dalla sommatoria incontrollata di inasprimenti erariali, inasprimenti locali, accise, ticket.
Certamente non considero praticabile un limite di rilievo costituzionale alla pressione tributaria complessiva, anche se questa esigenza, sotto certi punti di vista, non sembra contestabile, se non altro perché una tassazione esorbitante diventa uno stimolo per l’evasione – naturalmente da parte di chi può praticarla – e, per contrapposto, un’odiosa discriminazione ai danni di chi – come i cittadini a reddito fisso – non può sottrarre neanche un euro al controllo del fisco.
Ma una volta esclusa la fissazione di limiti mi sembra almeno doveroso, anche qui, che ci sia un soggetto in grado di monitorare con obiettività l’evoluzione della pressione tributaria sul cittadino di questa o quella regione, di questo o quel Comune. Anche perché al momento del voto questo stesso cittadino deve poter giudicare con cognizione di causa le politiche fiscali dei propri governanti e chiamarli a rispondere se ritiene che siano state sbagliate, e che i costi che gli sono stati imposti dalla politica siano inferiori ai benefici che questa ha dato a lui e alla comunità in cui vive.