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La “Prefazione” di Marco Vitale al libro di Fornari di Antonio Scaglione

prefazioneFornari.jpgQuando lessi, con grande interesse, la prima versione del libro sull’imbarbarimento del linguaggio politico di Giancarlo Fornari, eravamo nel pieno della campagna elettorale per le elezioni politiche. Eravamo, dunque, nel pieno della «logica binaria della guerra santa, dell’intolleranza, della contrapposizione». Il libro era concentrato sulle forme più violente e barbare dell’insulto politico che avevano raggiunto livelli inimmaginabili.


La nuova versione percepisce l’inizio di un cambiamento di clima, che è bene spiegato nel capitolo finale. I toni del dibattito politico sono diventati un po’ meno aspri e barbari. Gli insulti sono diventati meno frequenti e meno violenti. Quasi che componenti significative del paese abbiano preso coscienza che «la guerra combattuta negli ultimi due anni di questa seconda (o, forse, ancora prima) Repubblica, abbia fatto arretrare il paese non solo in termini economici – perché l’emergenza della politica e dei casi giudiziari del premier e del suo entourage ha messo in secondo piano quella dell’economia e della società – ma anche in termini morali e psicologici. La guerra, ci dice il suo teorico Sun Tzu che, paradossalmente non l’amava affatto, è come un fuoco che se non verrà fermato brucerà se stesso». Fornari coglie correttamente un rallentamento della tendenza verso l’imbarbarimento del linguaggio politico: «In sintonia con questo tipo di comunicazione meno cifrata e più concreta sembra si stia affacciando – ma sicuramente è ancora presto per dirlo – un modo di comunicare tra le forze politiche meno conflittuale, più rivolto al dialogo che allo scontro… Queste forze cominciano a comunicare in forma di dialogo anziché, come finora è per lo più avvenuto, in forma di invettiva». Condivido la percezione di Fornari e penso che sia giusto valorizzare questi primi segnali di miglioramento ancorché deboli. Ma temo che si tratti di una breve tregua, dovuta soprattutto al temporaneo rallentamento di Berlusconi, il maestro dell’invettiva politica insieme ai leghisti, e che appena Berlusconi riscenderà, con decisione, in campo il processo di imbarbarimento del liguaggio politico riprenderà con rinnovata virulenza. Ma, per ora, il rallentamento della politica dell’invettiva e dell’insul-to è un dato di fatto. Ciò permette a Fornari un ampliamento del campo di osservazione mettendo sotto la lente altre forme di imbar-barimento meno violente dell’invettiva e dell’insulto ma non meno preoccupanti. Certamente ripercorrere l’«antologia ragionata» con la quale Fornari documenta il passaggio dalla strategia dell’attenzione alla strategia dell’aggressione nel corso della lunga campagna elettorale 2005-2006, con una continua progressione verso la volgarità dell’insulto, fa impressione. Il fenomeno non è nuovo e non si può dire che l’iniziatore sia stato Berlusconi, anche se ne è diventato il grande direttore d’orchestra. Gli iniziatori veri sono stati gli uomini della Lega, che hanno svelato ai lombardi alcuni aspetti non felici della loro anima più profonda, portando in politica gli schemi comunicativi della peggior osteria, con profili di autentico squadrismo. Basti ricordare come la Lega definiva Berlusconi nel 1995: «un suino, un brutto mafioso, che guadagna soldi con l’eroina e la cocaina, un cornuto, una febbre malarica». Il fatto nuovo è che questo linguaggio è via via diventato nel 2005-2006 generale e diffuso. Come razionalizzare il fatto che il senatore Guzzanti definisce Prodi: «leader rottamato», «fior di mascalzone», «bavoso», «canagliesco», «attrezzo per disperati», «figura indegna»? Possiamo compensare queste volgarità con l’impressionante e altrettanto grave serie di insulti rivolta da esponenti della sinistra a Berlusconi? E come inquadrare gli insulti e le intimidazioni rivolte ai senatori a vita per delegittimarne il voto di fiducia? (Siamo nella Repubblica dei pannoloni titolerà il quotidiano diretto da Vittorio Feltri; ma Giorgio Benvenuto definì questa aggressione come forse il punto più basso del malcostume politico). Come definire i fischi e gli insulti che gli eurodeputati leghisti Speroni, Borghezio, Salvini rivolgono al presidente Ciampi in visita al Parlamento europeo? Cosa dire del ministro dell’Interno Scajola che definisce il povero Marco Biagi «un rompiballe», perché chiedeva la scorta la cui assenza è stata accertata dai giudici concausa del suo assassinio? (ma in questo caso scat-tò almeno la sanzione politica delle dimissioni). Possiamo veramente rimproverare il sottosegretario e vice-ministro per il turismo, il leghista Stefano Stefani, che parla dei tedeschi, primi e preziosi clienti della riviera adriatica, come invasori rumorosi della nostre spiagge «ubriachi di birra e tronfi di certezze», quando fu il presidente del Consiglio ad iniziare la tradizione di insolentire i tedeschi in una sciagurata esibizione al Parlamento europeo, chiamando «kapò» un europarlamentare tedesco che aveva il torto di non essere d’accordo con lui? L’elenco è lungo e il merito primo di Fornari è di ricordare tutti questi episodi, facendoci capire che non si tratta di una serie sfortunata di eventi casuali, ma di un nuovo linguaggio, di un nuovo modo di fare politica, di una drammatica involuzione politica, di un autentico imbarbarimento. Imbarbarimento che non si esaurisce nel-la comunicazione dell’insulto ma si manifesta in tante altre forme: nell’uso intenzionale e programmatico della falsità; nel mastellismo («recitare allo stesso tempo più ruoli in contraddizione tra di loro»); nella manipolazione sistematica dell’informazione; nell’uso della comunicazione istituzionale e dei relativi mezzi finanziari per ragioni del tutto personali; nell’uso di linguaggi criptici per addetti ai lavori; nel linguaggio incomprensibile delle leggi, soprattutto delle leggi finanziarie delle quali Fornari ci offre degli esempi impressionanti (e si chiedeva – e noi con lui – ma come possono i presidenti della Repubblica sottoscrivere e promulgare questi strumenti di oscurità assoluta?); nel ricorso alle fiabe («Fiabesco» definisce Fornari e non poteva dire meglio, il portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti, quan-do afferma: «Se c’è un esempio di politico che non ha mai fatto, non fa e non farà mai affari, quello, caro signor Prodi, è il presidente Berlusconi»); e fiabesco è l’ex presidente della federazione del calcio che si chiama fuori da tutte le malefatte di Calciopoli, semplicemente affermando: «Non mi ero accorto di niente». Il secondo merito di Fornari è di non fermarsi ad una semplice radiografia della malattia ma di sforzarsi di interpretarla, di individuare le ragioni, di tentare di ricondurla ad una qualche logica. L’a-tomizzazione della politica, la spettacolarizzazione della politica da un lato e la politicizzazione dello spettacolo dall’altro; il contrapporsi dei due poli che alimentano lo schema binario di contrapposizione; la difficoltà per il singolo di emergere nella comunicazione, di farsi percepire («quando tutti parlano, per farsi sentire occorre gridare») sono le maggiori cause intrecciate tra loro: lo schema è convincente ma resta incompleto. Vi sono episodi importanti che non si possono leggere con questo schema. Quando a Davos, davanti a tutto il mondo e con un rimbombo che si sentirà in tutto il mondo, il ministro dell’Economia e vice-ministro italiano Tremonti aggredisce, con una violenza gratuita e inaudita, un professore economista dell’Università di New York di origine turca, urlando: «Back to Turkish!», offendendo gratuitamente uno studioso che si era permesso di esprimere dei dubbi sulla capacità dell’Italia di stare legata all’euro a lungo termine, ed insieme un grande paese amico come la Turchia, le spiegazioni di Fornari non sono più sufficienti. Tremonti non ha bisogno di gridare per farsi sentire. Lo stesso vale per il suo successore Padoa Schioppa che, in un episodio per fortuna di evidenza solo nazionale ma non meno grave, offende gratuitamente un collega economista, noto opinionista del «Corriere della Sera», che ha osato esprimere dei dubbi sulla volontà del governo di ridurre la spesa pubblica, accusandolo di formulare queste critiche solo per far vendere più copie al «Corriere». Un’affermazione inaudita, incomprensibile da parte di una persona sempre equilibrata e che, a differenza di Tremonti, non ha neppure frequentato intensamente Berlusconi e leghisti, sicché non può contare neppure su questo alibi. Forse di tutti gli episodi ricordat
i da Fornari questo rimane per me il più incomprensibile. Episodi come questo mettono in evidenza i limiti di un’analisi puramente comunicazionale e sociologica e la necessità di integrarla con una indagine psicologica e psichiatrica. Molto interessante e approfondita è, infine, l’analisi che Fornari fa dei due incontri televisivi tra Berlusconi e Prodi. L’analisi pone in luce pregi e difetti dei due contendenti e illustra, convincendo, come Berlusconi abbia stravinto il secondo incontro, facendo tesoro degli errori commessi nel primo, e usando con abilità lo strumento della manipolazione. Mi è dispiaciuto che Fornari non abbia formulato un giudizio sulla qualità dell’incontro in sé. A me sembra che il giudizio debba essere largamente positivo. Gli ascoltatori hanno percepito, con sufficiente chiarezza, il profilo dei due leader e delle due diverse politiche che essi rappresentavano, gli insulti sono stati contenuti, le sopraffazioni anche, il dibattito è stato forse un po’ noioso ma ben governato. Sembra dunque che introdurre delle regole rigorose e professionali possa essere una delle vie per recuperare un dibattito politico meno barbaro, in aggiunta agli altri fattori ricordati nel capitolo finale. Tra questi Fornari, ricorrendo ai modelli di archetipi della psicologa americana Carol S. Pearson, auspica che ci siano meno Guerrieri e più Maghi («che attraverso l’esperienza hanno raggiunto la saggezza e possono trasferirla ad altri»). A me sembra che più che dei maghi il paese abbia bisogno di profeti, proprio come quelli dell’Antico Testamento che parlavano al popolo ebreo, esule e ramingo, infondendo allo stesso coraggio e speranza, incitandolo a sollevarsi dalla servitù in cui era caduto e ad attraversare il deserto.


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