La guerra in Ucraina è l’inevitabile che si credeva impossibile, l’invasione russa spezza le certezze del mondo occidentale e ci costringe a considerare la realtà per come è, al netto dei rifiuti psicologici degli ultimi tre decenni.
La guerra è arrivata in territorio europeo ed è una guerra tradizionale, fatta di soldati di fanteria, carri armati e cannoneggiamenti, è la prima guerra, da decenni, ad essere combattuta in maniera simmetrica, tra eserciti più o meno equivalenti e dotati di tecnologia similare, non più bombardieri stealth contro kalashnikov e IED improvvisati, ma missili contro missili.
La mossa di Vladimir Putin viene da lontano, è il punto di snodo, ma non di arrivo, di una politica di progressivo rafforzamento strategico che è iniziata dai primi anni 2000, sul crepuscolo del naufragio economico dell’era Eltsin e tra le ostalgie di un pezzo importante di società russa. Il ventennio putiniano è stato una costante ricostruzione della grandezza perduta, che si è mossa, però, lungo uno schema che non è stato altro che la riproposizione della logica sovietica: esibizioni muscolari, rafforzamento militare, interventismo all’estero, riappropriazione della simbologia e delle suggestioni del passato. Ma, se da un lato questa politica ha consolidato il consenso interno intorno a Russia Unita ed al presidente, la realtà è che la Russia è andata verso una progressiva desertificazione economica, priva di un grande tessuto produttivo ed appoggiata ai settori tradizionali dell’economia sovietica, industria pesante, gas e combustibili fossili. Putin ha perso la sfida di agganciare lo sviluppo interno ai livelli dell’economia mondiale, ha risollevato la situazione disastrosa post sovietica ma non è riuscito a farne una realtà sistemica. La Russia dell’ultimo trentennio è stata dominata dagli oligarchi e caratterizzata dal progressivo depauperamento del patrimonio pubblico e dall’accaparramento di grandi patrimoni speculativi personali, gli oligarchi sono parte integrante del sistema di potere di Putin, un sistema corrotto e serrato sulla conservazione del potere stesso, blandendo e strizzando l’occhio ad un apparato militare imponente ma carico di voglia di rivincita per l’impotenza cui è stato costretto dall’Afghanistan in poi, e per la sconfitta, senza combattere, nella Guerra Fredda.
Per comprendere gli eventi di oggi è importante leggere quest’ultimo passaggio, Putin sta praticando una antistorica revisione della situazione determinatasi dopo il 1992, allorché la NATO ha vinto la Guerra Fredda e l’URSS, e di conseguenza la Russia, l’ha persa. Naturalmente la potenza vincitrice si è espansa nell’area di influenza della potenza sconfitta, la Russia è regredita al rango di superpotenza continentale, che, comunque, si è provato ad integrare all’interno del sistema occidentale. La Federazione Russa è stata associata al G8, è entrata a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ha avviato una cooperazione con la NATO. Il tentativo di normalizzare i rapporti con l’occidente è fallito poiché la Russia non ha mai considerato il suo ruolo come paritetico, ma ha sfruttato tali aperture di credito per imporre il proprio ruolo agli europei con la minaccia dell’opzione nucleare. L’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica è una ipotesi remota, non certo di attualità, ciononostante Putin ha sviluppato una psicosi al suo solo ventilarsi, segno di un approccio imperialista alla gestione dei rapporti di forza sul versante europeo, che esige la conservazione di una sfera di influenza che, prima ancora che spazio reale, deve essere considerata quale spazio simbolico sottratto a qualunque speculazione in senso opposto.
Il problema principale è quello della sopravvivenza della realtà russa, un paese che vive nel ricordo di passata grandezza, esteso su di una superficie immensa ma che è un nano economico nel panorama mondiale, incapace di attrarre nella propria orbita i paesi del versante europeo che guardano a Mosca con timore, mentre guardano con ammirazione al processo di integrazione dell’Unione Europea. Una dinamica che in Ucraina si è palesata con evidenza, dopo l’indipendenza oltre un decennio di governi legati a Mosca è stato sterile di sviluppo e cambiamento, mentre si osservava con crescente ammirazione il percorso dei paesi confinanti, Polonia e Romania, entrati nell’area di prosperità europea e protagonisti di un innegabile sviluppo economico e sociale. I tentativi di allineamento ad ovest dell’Ucraina rimontano già al 2004, con la rivoluzione arancione, ed anche in quel periodo l’opposizione maggiore, eterodiretta da Mosca, proveniva dalla regioni dell’est, e difficilmente gli ucraini hanno dimenticato il tentativo di avvelenamento di Juscenko da parte dei servizi segreti russi, il che aiuta a comprendere meglio l’aspirazione a mettersi al riparo della NATO, al netto delle prospettive di benessere che promette l’Unione Europea. La Federazione Russa è incapace di promettere altrettanto e, in mancanza di peso economico, ha l’opzione sovietica dei carri armati quale unica linea di intervento internazionale. Nel confronto con l’occidente sono armi spuntate, prive financo delle suggestioni ideologiche del comunismo internazionalista sulle quali poteva contare l’URSS, che condannano la Russia ad uno stato di minorità che è lontanissimo delle illusioni di rivincita e di grandezza che si coltivano all’ombra del Cremlino, che paiono il frutto di una visione drammaticamente slegata dalla realtà.
I carri russi hanno invaso l’Ucraina innalzando la bandiera rossa
Il sogno imperiale di Vladimir Putin è un pericolo per l’Europa, qualunque ipotesi di cedimento rappresenterebbe l’accettazione del ricatto, in queste condizioni la via diplomatica condurrebbe ad un compromesso al ribasso che includerebbe l’irrazionale accettazione passiva del rischio, che trasformerebbe la nostra quotidianità in un incubo brezneviano. Le conseguenze di un intervento diretto dell’occidente potrebbero essere devastanti, ma il non intervento ci ha già devastato.