Le temperature più miti di questo inizio anno non hanno ancora rischiarato l’orizzonte in vista dell’elezione del prossimo presidente della Repubblica, anche se, come accaduto spesso negli ultimi decenni, il nome che davvero sarà in grado di raccogliere i voti necessari verrà fuori solo a votazione aperta, negli interstizi carichi di trattative e contatti tra il secondo ed il quarto scrutinio.
Le ombre del lungo inverno della politica italiana continuano ad allungarsi sulla partita per il Colle, e nella mediocrità del panorama generale soltanto l’inatteso coup de theatre della candidatura forte di Berlusconi, istrione che resta sul palco fino all’ultimo, ha ravvivato una elezione che altrimenti sarebbe stata più noiosa di un messaggio presidenziale di fine anno. La circostanza è rilevante, anche perché fa emergere una situazione del tutto nuova per la seconda repubblica: il ruolo determinante del blocco di centrodestra, quale non era mai stato dal 1992, che pur nella confusione della fluidità degli schieramenti e delle maggioranze, è indice di una evoluzione della democrazia italiana, che a fatica cerca una nuova normalità e una nuova struttura, sganciate dai riferimenti politici della seconda metà ‘900. Invero i protagonisti di queste settimane hanno interpretato e raccontato la cosa molto male, il centrodestra si è intestato la battaglia per esprimere il nome, la Meloni ha finanche parlato di “ruolo di king maker per la prima volta nella storia repubblicana”, l’alleanza giallorossa insiste nella ricerca di un nome condiviso, mentre Letta e Bersani si sono precipitati a negare che al centrodestra spetti una sorta di “diritto” in relazione al nome del presidente.
Mentre il Cavaliere eterno alla fine ha mollato la presa di un tentativo che pareva una forzatura, il curiale segretario del PD si è lasciato scappare un infelicissimo “altri nomi del centrodestra faranno la stessa fine di Berlusconi”. Qui si palesa tutto il cortocircuito logico-politico che ha raffreddato l’aria sul colle più alto, poiché l’improvvisa ed isterica levata di scudi del centrosinistra, nel momento in cui si è palesata la concreta possibilità che a Silvio Berlusconi mancassero giusto tre decine di voti per diventare Presidente, proviene da quella stessa area politica che con Berlusconi ha inventato la maggioranza Ursula del 2019 per estromettere la Lega da Palazzo Chigi e che, nel 2021, si è profusa in considerazioni sulla alterità e sulla “bontà” del centrodestra berlusconiano in confronto all’alleanza dei sovranisti, che da Enrico Letta sono considerati un esercito di barbari pronti a calare su Roma. Dopo averlo blandito, dopo avergli ridato centralità politica, come potevano immaginare che l’ambizioso ed inesausto Berlusconi se ne restasse a fare l’uomo saggio ad Arcore? L’ambizione è elemento fondamentale delle grandi proposte politiche, nel vuoto di novità e nella pochezza di prospettiva di medio periodo, Berlusconi resta un gigante della scena nazionale, naturalmente candidato ora che il centrodestra ha una posizione di forza.
Quest’ultimo è l’altro aspetto di una realtà complessa che andrebbe raccontata al di là dei codici felpati delle segreterie di partito: per la prima volta dal 1992 l’area del centrosinistra non ha i numeri per eleggere da sola il Presidente della Repubblica a maggioranza semplice, pertanto sa di non fare nessun nome proveniente dal proprio bacino, che finirebbe per essere immediatamente impallinato dall’altro schieramento, il Partito Democratico sarebbe si disposto a convergere su un nome fatto dal centrodestra, tirandosi dietro anche buona parte del Movimento 5 Stelle, ma a condizione che quel nome di centrodestra non sia. Sostanzialmente Letta vorrebbe fare il ventriloquo sussurrando un nome, che lui e i suoi ritengono accettabile, nelle orecchie di Salvini e Tajani, fingendo poi di aver raggiunto un accordo di condivisione e tacitando le aspirazioni leghiste con qualche posto in più al governo. Per questo il nome di Draghi, che il PD continua a presentare come prima scelta per il Quirinale, non è che un tatticismo, un elegante espediente che, se dovesse giungere a realizzazione, porterebbe alla nascita di un governo guidato da un uomo o una donna in quota Partito Democratico, o a questo non sgradito, con qualche poltrona in più per leghisti e forzisti, spaccando ancora di più una unità di centrodestra che appare piuttosto precaria. Se l’operazione non dovesse riuscire, dalle parti del Nazareno potranno sempre rivendicare d’aver fatto il nome più inappuntabile e condivisibile. Prima del secondo scrutinio le carte per sparigliare il tavolo resteranno ben coperte, nell’attesa che un raggio d’intesa riscaldi una trattativa fin troppo grigia.