Il dibattito storiografico, sviluppatosi nel corso del nostro secolo sul problema della definizione di una cultura “filosofica” meridionale, ha il suo punto di partenza nel pensiero di Vico e Cuoco, in riferimento alle loro opere minori, De antiquissima Italorum sapientia (1710) del primo e Platone in Italia (1806) del secondo, due saggi che ebbero il merito di rivendicare antichità e continuità della tradizione culturale meridionale. >>>
>>> A questo punto, si può comprendere meglio il motivo per cui il cosentino Tommaso Cornelio definisce incolas nostros i pitagorici, fondatori della più antica sapienza matematico-filosofica della penisola; non di meno la ratio che suggerì all’erudito pugliese G.B.Tafuri la redazione dell’Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli (1774); anche l’interpretazione del materiale antiquario (italiota, etrusco, italico) sembrava mirare ad un “modello italico”, secondo la definizione di Giuseppe Giarrizzo, che si contrapponeva al centralismo romano ed al forestierismo gotico, per cui la cultura illuministica meridionale rilesse le vicende meridionali per evidenziare autonome tradizioni speculative e ricostruire l’intreccio di scienza e virtù delle antiche nazioni italiche del Mezzogiomo d’Italia. Non per niente, Genovesi poté fare l’elogio del “sapere delle illustri nazioni che popolarono le contrade meridionali, famose per scuole, leggi, arte, commercio” e, nella stessa ottica, nell’Ottocento dominato dal mito dell’unità nazionale, Enrico Cenni scrisse Napoli e l’Italia.
Nel clima positivistico, quando esplose la “questione meridionale”, anche in polemica con le posizioni deterministiche di Cesare Lombroso, si ripropose il tema del primato meridionalistico da parte di Pasquale Turiello, secondo il quale le notevoli attitudini speculative dei meridionali esaltavano in essi il senso politico, la disposizione all’arte, alla speculazione filosofica e alla letteratura. Il meridionalismo, già anticipato da Genovesi, Filangieri, Galiani, Galanti, Cuoco e Pagano, i quali denunciarono le condizioni di arretratezza del regno e proposero interventi di trasformazione politica e sociale, trova in Pasquale Villari, Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti e Gaetano Salvemini gli autori più robusti e significativi.
Nel primo Novecento, Gentile e Croce, che si sentirono continuatori della migliore tradizione meridionale, costituiscono saldi punti di riferimento per un corretto approccio al problema. Nel primo, il tema della tradizione nazionale restò sempre preminente, mentre nel secondo ebbero maggiore incisività le tradizioni regionali. Luigi Russo esaminò nella sua visuale prettamente idealistica la tradizione culturale napoletana, considerandola in contrapposizione con la cultura toscana. Tralasciando le interpretazioni di Nino Cortese, di Adolfo Omodeo e di tanti altri che hanno dibattuto il problema, tentando di dare una risposta alla domanda iniziale, ritengo che nel pensiero razionalistico Eugenio Garin, esprimendosi sull’eventualità di riconoscere una “filosofia meridionale”, palesi l’agitarsi una problematica, entro la quale si intravede la possibilità di leggere la tradizione filosofica del Mezzogiorno con tratti salienti; sul versante storico, gli studi di Giuseppe Galasso, incentrandosi intorno al problema dei caratteri originali della dinamica della storia meridionale, hanno contribuito a delineare un quadro variegato dei ceti dirigenti ed intellettuali meridionali e a precisare il tema dei rapporti tra cultura e potere.