Il poeta Kostantinos Kavafis (1863 -1933), di famiglia greca, nacque ad Alessandria d’Egitto (città in cui nacquero anche Ungaretti e Marinetti) e ivi, in pratica, rimase per tutta la vita, impiegato del Ministero dei Lavori Pubblici. La sua opera omnia assomma a poco più di 150 liriche >>>
Stanno i giorni futuri innanzi a noi Restano indietro i giorni del passato, Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto, Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido, Il poeta Kostantinos Kavafis (1863 -1933), di famiglia greca, nacque ad Alessandria d’Egitto (città in cui nacquero anche Ungaretti e Marinetti) e ivi, in pratica, rimase per tutta la vita, impiegato del Ministero dei Lavori Pubblici. La sua opera omnia assomma a poco più di 150 liriche e la fama gli arrise postuma mentre in vita fu letto e pubblicato pochissimo. Nella sua poetica, non disdegna di ispirarsi alle tradizioni del classicismo greco ma Il lirismo maggiore lo attinge trattando dei comuni sentimenti umani che riesce a vivere con intenso pathos, espressione di penetrante sensibilità d’artista. In “Candele”, la vita e la morte si propongono, termini eterni di una lotta perenne in cui è la seconda immancabilmente a prevalere. Tra le due si erge, giudice sovrano, il tempo che fugge, e che corre incontro ai nostri occhi senza che nulla possiamo a contrastarne l’imperturbabilità. Il timore reverenziale, proprio della natura dell’uomo, nei suoi confronti non è certo originale, anzi. Dal Virgilio delle Georgiche – fugit interea, fugit irreparabile tempus: intanto fugge, fugge irreparabilmente il tempo (lib. III) – al Dante del Purgatorio – vassene il tempo, e l’uom non se ne avvede (c. IV) – , innumerevoli i precedenti. Ma, singolare ed impressiva, è la metafora che il poeta usa per rappresentare i suoi, i nostri, giorni, quelli che sono stati e quelli che saranno: la vita come una lunga sequenza di candele, ciascuna a rappresentare un giorno. “Dorata” dalla speranza del futuro, che auspichiamo propizio in ogni istante, ecco che, dopo aver toccato l’acme nel volgere delle brevi 24 ore che la riguardano, ciascuna di esse rimane spenta per sempre. Abbandonata dal tocco vitale, che l’ha fatta assurgere a vivida scansione del destino racchiuso in quel fugace intervallo, è conclusa. La stortura della realtà accaduta rispetto alla meraviglia dell’immaginato è quella che rende le spente “fredde, disfatte, e storte”. E non può essere altrimenti, giacché i sogni – quello che noi immaginiamo per il giorno a venire – raramente collimano con quanto realmente accadrà. L’uomo, conscio della brevità del corso terreno, non può che guardare con pena alla fila di candele spente che si allunga inesorabile. Sempre meno, giorno dopo giorno, quelle non ancora intaccate dal procedere, che le vivifica all’atto degli ultimi bagliori, l’una a seguire l’altra, per poi smorzarle incessantemente. C’è tutta la pochezza dell’esistenza umana in questa fila che si snoda, a prima vista sterminata, ma poi, via via, sempre più misera e limitata. Quasi ci figuriamo di osservarlo – il pendolo intangibile del tempo – che al suo passaggio spegne la candela dell’oggi. la memoria m’accora il loro antico lume Il “presto” – ripetuto negli ultimi due versi della lirica – affretta la rincorsa del soffio spegnitore che sembra voler sottrarre anche quanto è stato concesso. Risuona nella mente il bellissimo verso in prosa ne “L’amante” di Marguerite Duras: “Presto fu tardi nella mia vita“. E presto oggi appare l’imperativo categorico di tutto il possibile. Lo scivolare ingannevole degli anni da sempre ci perseguita, la vita corre sempre più in fretta di quanto potremmo anche lontanamente immaginare, e quando stringiamo il pugno essa ne è scorsa via come acqua corrente …CANDELE di K. KAVAFIS: commento di Luigi Alviggi
come una fila di candele accese,
dorate, calde e vivide.
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.
la memoria m’accora il loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.
E’ tutta qui l’intrinseca tristezza dell’uomo: il ricordo di quello che è stato e che più non sarà accora, e la commozione di contemplarlo scritto com’è, immutabile, unita al rimpianto per il tempo trascorso, appaiono proiettare un’ombra anche sul promettente futuro. Diverso Atropo – l’immutabile, che tagliava inflessibile il filo della vita – lo spengersi della fiamma accorcia la fila delle candele accese: un senso intrinseco di limitatezza si erge dominante sulla natura di ogni nostra cosa. Né si può richiedere alla memoria di riproporci, attuale, l’avvenire dei giorni andati. Quanti di essi sprecati senza realizzare il valore di quel “lume” che non li infiammerà di nuovo, e quanto sconforto nel riconoscere che la serie delle candele accese diventa sempre più corta.