Oggi intervisterò una delle figure di spicco del panorama culturale e politico aversano, il primo cittadino: Gaetano Parente. Non sa chi sono, non sa da dove vengo, ma, in seguito ad una mia richiesta, mi ha invitato ugualmente nella sua residenza che, con un vezzo civettuolo definisce “il mio villino”.
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Si tratta del Palazzo Parente, ubicato tra Via S. Marta e Via Rainulfo Drengot. È un vasto edificio, di chiaro impianto rinascimentale, che si trova nella zona che gli aversani sono usi chiamare: “aret ‘a scalella”, perchè qui si rifugiarono, per sottrarsi alle continue incursioni dei “saraceni”, alcuni abitanti di Scala, un grazioso paesino della costiera amalfitana.
Il Sindaco mi riceverà nel suo bellissimo giardino. Un ambiente gradevole ed armonioso, traboccante di palme, camelie e cycas. Un domestico fa segno di attendere. Mi fermo a guardare la vasca circolare circondata da aiuole fiorite delimitate da pietre di basalto grigie. D’improvviso vedo arrivare il Parente. Ben vestito, curato nell’aspetto, un bell’uomo. Mi accoglie con un sorriso di circostanza. «Da dove viene?», chiede con un tono stentoreo. «Eccellenza, se si riferisce alla distanza, direi, più o meno, …un cinquecento metri…», rispondo con un tono leggermente timoroso. «Che cosa intende dire?», ribatte con un tono pacato ma deciso. «Intendo affermare che vengo dalla stazione ferroviaria d’Aversa che dista appunto 500 metri, anche se, in realtà, la mia vera stazione di partenza si trova nel futuro! In un altro millennio. Nel ventunesimo secolo». «Giovinotto, per caso, vuol prendermi per in giro?». «Non mi permetterei mai Eccellenza. Se me ne darà l’opportunità, le spiegherò tutto». Nel dire questa frase, prendo dalla tasca della giacca una semplice penna biro, scrivo il mio nome su di un pezzetto di carta e glieli porgo entrambi. Non potrò mai dimenticare l’incredula espressione che appare sul suo viso. Un’espressione a metà strada tra la sorpresa e la paura. La grand’umanità del personaggio, l’educazione ricevuta e l’inesauribile curiosità che alberga nel cuore d’ogni uomo di cultura, però, ha il sopravvento su qualsiasi altro sentimento, compresa la paura. «A cosa serve?». «A scrivere, Eccellenza. È una penna biro». «Una penna biro? E l’inchiostro dov’è?». «All’interno, Eccellenza.». «Diavolerie del secolo delle grandi innovazioni» esclama a voce alta. Poi, aggiunge: «Le concedo solo il tempo che ci separa dalla dodicesima ora, l’ora dell’ultimo vespro» (le 18 circa). Contento come una pasqua, m’incammino tra i vialetti ricoperti di pietrisco tufaceo, in compagnia, incredibile ma vero, di Gaetano Parente. Mi sembra d’essere il peripatetico Stratone di Lampsaco, impegnato nelle difese del meccanicismo in natura, che, mentre nega l’esistenza di una divinità trascendente, vede spuntare Aristotele da dietro una siepe del giardino del Liceo». «Fermiamoci qui, i miei sessanta anni incominciano a farsi sentire». Ci fermiamo di fronte all’esedra. Noto un bell’affresco e chiedo al Sindaco notizie al riguardo. «È un’opera tardo rinascimentale. È stato eseguito con la tecnica dello spolvero» (s’intravedono ancora le tracce della polvere rossa della sinopia che lasciano intuire il viso angelico di un puttino). «Probabilmente è l’opera di uno sconosciuto artista locale, che ha raffigurato La preghiera nell’orto, come può vedere, in basso a destra, infatti, c’è il Cristo». Così come gli antichi greci che utilizzavano l’esedra come luogo di ritrovo e conversazione filosofica, anche noi ci sediamo ed iniziamo l’intervista/conversazione. «Eccellenza mi piacerebbe saper….», mi ferma con un gesto pacato della mano e, guardando la penna biro, ribatte: «No, mi dica: Lei viene davvero dal futuro?». «Si, Eccellenza, provengo dall’anno 2008, ma non mi chieda come ho fatto per arrivare sin qui perché, in tutta sincerità, non saprei proprio come spiegarglielo». «Mi dica, la mia città è ancora bella, com’è oggi?». «Beh, per la verità… cioè…uhm…». «Egregio Signore, parli. Voglio sapere la verità!». «Eccellenza, cosa Le devo dire, ieri (il mio ieri) in città erano accumulate in mezzo alle strade ed alle piazze più di mille tonnellate d’immondizia…». «Perbacco, che disastro, e come diavolo ci sono andate a finire?». Tiro fuori della tasca un foglio con l’ultimo articolo che ho scritto sull’emergenza dei rifiuti. Glielo porgo. Inizia a leggerlo, non prima di aver inforcato un paio di curiosi occhialetti. Ogni tanto annuisce. Aggrotta la fronte. Fa delle strane smorfie, sembrano di disgusto. Noto che non finisce di leggere tutto il testo. Piega con calma il foglietto. Rivolge lo sguardo verso di me. «Posso tenerlo?». «Certamente, Eccellenza». «Lo leggerò durante il viaggio…». «Parte, Eccellenza?». «Si, vengo con Lei». «Con me?». «Si, con Lei. Voglio venire nel futuro con Lei per vedere con i miei occhi in che stato hanno ridotto la mia città. Voglio guardare negli occhi gli attuali amministratori e tutti quelli che hanno contribuito a creare la situazione grave che Lei così bene descrive». «Eccellenza, per Lei sarà molto doloroso constatare com’è stata ridotta la città». «Veda caro giovine, io per questa città ho dato tutto. Mi sono sempre occupato di alleviare le sofferenze dei più poveri.». «Questo Le fa onore, Eccellenza». «Il mio impegno principale è stato sempre quello di incrementare il livello d’istruzione degli aversani per fornire loro i mezzi per emanciparsi da soli». «Lei è ricordato con benevolenza proprio per questo suo impegno, Eccellenza». «Veda, caro giovine collega, per me chi occupa il seggio comunale più alto deve dimostrare di possedere innegabili doti d’onestà, di moralità e di correttezza». «Condivido in pieno». «Veda, un sindaco non deve dare spazio alle beghe politiche ma occuparsi delle scuole, degli studenti, dei professori, dei lavoratori, della salute dei cittadini, della riqualificazione urbanistica ed artistica della città. Per questo voglio venire con Lei. Per constatare in loco cosa è stato fatto o cosa sarà fatto per restituire alla città di Aversa la dignità di un tempo». «Allora conviene avviarci, Eccellenza. Prima che sia troppo tardi…».