Se con l’Autore – come già avviene nel precedente romanzo Angelo per un giorno – vuoi diventare anche tu viaggiatore; uno che è ancora in terra, ma non ne calpesta i lembi coi piedi e le scarpe, uno che tocca le cose con calzari recuperati in una bottega speciale, quella degli angeli riparatori; uno che incede volando perché possiede ali di angeli custodi che, come aquiloni, sanno colorare l’esistenza di adulti purché sappiano farsi di nuovo bambini… se hai voglia di tutto questo, sei pronto ad entrare nella casa di zio Peppe, per “aprire il Natale” con lui, la moglie e il nipotino – non di sangue, ma acquisito per “vicinato” -, nipote che anche nel nome, Gennarino, ripete l’Autore da piccolo.
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Sei pronto a dialogare, a trasferire notizie da una generazione all’altra portare a consapevolezza tutte le ansie e tutte le speranze, tutti i fallimenti e tutti i sospiri, tutte le violenze e tutte le paci, a condensarle tutte nei suoni degli zampognari, esseri che suonano dal basso della grotta, a cui rispondono da sopra, dall’alto, quegli zampognari celesti, che sopra la grotta cantano gioia e pace: «E questo cantano gli angeli sulla grotta! È come se rispondessero alla speranza di chi sta sotto e annunciano che, grazie al bambinello, che è nato, un giorno non ci sarà più guerra ma solo pace sulla terra e nel cuore degli uomini» (100-101).
Il racconto ti fa, per partito preso, indugiare, ti chiede di non essere frettoloso, di fermarti, «e tu devi fermarti davanti alla storia. Per questo qualcuno ha pensato di fare un presepe, per farci fermare dinanzi all’incanto» (19). Ti domanda d’imitare zio Peppe, che apre il Natale già dall’ultima domenica di novembre per vivere piano piano, senza fughe in avanti, fino alla sua “chiusura”, come il sipario di una scena teatrale e come la linea della vita; di conoscere uno a uno i suoi pezzi del presepe, agitato di fronte alla latitanza del pastore “unico”, che non appare dopo il primo scartoccia mento (43) e che è indispensabile perché rappresenta il punto di osservazione più corretto per guardare l’intero presepe (69). Questo libro è insieme il romanzo del presepe, come dichiara il sottotitolo , ma anche il romanzo di Napoli, perché «per poter leggere il presepe devi conoscere bene tutte e due le storie, quella di Gesù e quella di Napoli, altrimenti non capisci niente. Se malauguratamente non si facesse più il presepe, pure una parte della storia della nostra città verrebbe cancellata» (54-55). I riferimenti a Greccio e san Francesco, a sant’Alfonso e a tutti i luoghi originari della rappresentazione della natività di Cristo, pur presenti, cedono di fronte a questa città delle numerose – troppe rispetto alle persone -, chiese ed edicole votive, città delle folle di santi e di beati, con Gennaro caporione (cf 150), cedono di fronte a questa città del presepe. Città dove, come ricorda il romanzo – che raccoglie memorie sia storicamente documentate sia appartenenti alle tradizioni comuni (quasi poste alla pari ed al servizio del comune scopo di raccontare la fede creduta e quella vissuta) -, «si dà notizia che, prima ancora di Greccio, pochi anni dopo il mille, a Napoli già c’era una chiesa intitolata a santa Maria del Presepe» (50). Matino ha in mente la Napoli insieme globale e localistica, cosmopolita e rispettosa delle altre tradizioni religiose ma che non sa rinunciare al mistero del bambinello (cf 11) ed alla delizia dolciaria degli struffoli (74); città aperta e chiusa nel calore del focolare, ricca e povera, diversa e capace di sintesi, perfino di capovolgimento di classe e di rivoluzione sociale, come ricordano i cacciatori del presepe, che pensano di stare al di sopra dei pescatori ma, alla fine, non riescono a centrare l’obiettivo di guardare in faccia il bambinello (cf 144). Una Napoli che non è mai uscita dalla sensibilità di luogo che attende un monarca, uno che la occupi e la renda propaggine di un regno. Questo non soltanto dal punto di vista socio-politico (che, peraltro, è un giudizio severissimo sul luogo), ma soprattutto dal punto di vista religioso: l’attesa di un re che occupi è evidente allusione al Dio bambino, che regna nell’amore e viene invocato nelle canzoncine che i personaggi del romanzo intonano ogni tanto con le proprie indecise voci, in quei passaggi in cui il libro sembra farsi canovaccio teatrale o, meglio ancora, un appunto per una sceneggiata o per la cantata dei pastori, quella di Razzullo e Sarchiapone, evocata nelle sue coordinate storiche e letterarie alle pp. 106-108.
Il teologo pastoralista rimane costante nelle corde del narratore. Il presepe, come già la Biblia picta medievale e come le prime sacre rappresentazioni della Natività, è un mistero da leggere, anzi «è un vangelo senza libro, lo possono leggere tutti e se uno impara a entrarci dentro capisce tutti i significati» (109). Matino è costantemente alla ricerca, ad ogni pagina e ad ogni occasione – offerta dall’indagine commissionata dalla scuola al ragazzo e, soprattutto, dalla straordinaria capacità affabulativa del vecchio -, di strategie e di stratagemmi pastorali per rendere popolare e meno clericale la comunicazione della fede. Anche il presepe è, a ben vedere, un espediente di questo tipo: «in fondo, il presepe napoletano è un’interpretazione laica dell’avvenimento sacro […]; diciamo che è uno stratagemma per far uscire la natività dalla chiesa e calarsi nell’ammuina dei fatti semplici della vita» (52). Non manca, come in tutti i processi ermeneutici, un po’ di filosofia, quella che la signora Luisella chiama «filosofia della vita» (101), che le piace sentir raccontare, ma di cui ha paura a motivo delle inevitabili lungaggini a cui costringe l’ascoltatore. Sì, perché la filosofia della vita, quando viene raccontata, non finisce più di essere descritta (cf 101). Stavolta, in questo romanzo, il filosofo è Zio Peppe, napoletano semplice ma filosofo e teologo, ed anche fine se sa, come sa, non fermarsi mai alla prima impressione, ma scendere nel profondo delle cose e degli eventi; se sa, come sa, destreggiarsi tra vangeli canonici dell’infanzia, canovacci teatrali e vangelo apocrifo di Giacomo. A lui viene assegnato dall’Autore il ruolo, forse un po’ eccessivo, di “esperto semplice” di filosofia e di teologia. Soprattutto, però, egli appare un vecchio convinto che «il presepe è una filosofia, che niente è improvvisato o messo a caso» (61), che lo scartocciamento dei pastori per l’apertura del Natale, in questo piccolo “Natale in casa Cupiello”, è da proporre ancora alle giovani generazioni, come un vero e proprio rito e, insieme, come un momento di catechesi domestica, il cui catechista-mistagogo è appunto l’anziano padrone di casa. Ai suoi occhi ancora incantati nonostante gli anni e, soprattutto, capaci d’incantare la moglie ed il piccolo vicino di casa, il presepe è un microcosmo dell’esistenza vita ed umana: «Sul presepe è rappresentata tutta la vita, e anche se viene giocata al tavolo del destino, grazie al bambinello appena nato, c’è la speranza che ci possa essere rinascita e risurrezione per tutte le età e per tutte le stagioni» (98). Il dolore stesso, che accompagna stabilmente la vita, non può, filosoficamente, essere evitato né negato, ma utilizzato come veicolo di sapienza: «Mai zio Peppe avrebbe negato la vita per il dolore ma sapeva che le sofferenze e le precarietà leggono la vita. Sapeva che solo la speranza poteva dare una risposta esaltante alla domanda sul perché del dolore» (132).Di Peppe la moglie è la controfigura dialettica, però alla maniera socratica, l’antitesi al femminile, la controdomanda e la perplessità, che consente un nuovo giro di riflessioni. Fredda e razionale, poco incline all’emotività, legata alla spiegazione apparentemente più ordinaria e plausibile, si scioglie soltanto a p. 110, allorché, quasi re-innamorandosi di lui a tarda età, riconosce al marito la capacità di far venire la voglia di fare il presepe, di emozionare, di commuovere, di far comprendere, ovvero di passare da quello che è guardato quotidianamente e attende tuttavia di essere visto (110).
Del resto, non è forse la meraviglia l’atteggiamento prevalente indotto dal romanzo fin dal titolo? E non è forse vero che bisogna aggiustare non soltanto la statuina del bambinello, la cui testa si è staccata dal tronco (cf 148), ma il nostro stesso modo non più in grado di stupirsi, di guardare con occhi nuovi, di restaurare presso bravi maestri artigiani la prospettiva corretta? Il pastore della meraviglia, ci ricorda Matino, è una statuina che cerca di far cose con il gesto. Così fa anche Benino, il pastore dormiente, ma non per stanchezza ed inedia, bensì per poter sognare, come ricorda il capitolo “L’uomo dei sogni”, scritto a metà tra la ripresa di saghe popolari sull’addormentarsi e sulle speculazioni psicanalitiche. La meraviglia, però, scoppia all’improvviso negli occhi e nei cuori di si lascia stupire. La meraviglia, oltre che generare la filosofia, riesce a paralizzare, se viene, uomini, animali e cose, come nei racconti popolari della Natività. Meraviglia condensata nel pastore più importante del presepe, quello che si mette al centro di esso, «quello attraverso il quale passa tutto il fantastico mondo del presepe» (23). È il pastore dalla bocca aperta, che resta davvero incantato, come recita la filastrocca natalizia alfonsiana, che si lascia sfuggire quello “oh”, proprio dei bambini e di chi è disponibile ad essere «colto di sorpresa da quello che ha visto, o forse ha sentito, qualcosa d’inaspettato, prodigioso» (24).
Questo pastore, senza abiti particolari, è la metafora di ognuno di noi, che «rappresenta l’uomo qualunque, di qualsiasi epoca della storia, spettatore del grande evento prodigioso» (25) Del resto, come osserva lo stesso Zio Peppe, se è il pastore più importante del presepe, e se la meraviglia chiede, come l’itinerario filosofico, di passare dai sogni alla realtà dei fatti e alla verità delle cose, anche il sognare di Benino è soltanto preludio all’essere svegliati, come avviene nella Cantata dei pastori, quindi è «un sentiero per arrivare al mistero» (126). Sognare come i bambini, lasciarsi affascinare dalle luci, dalle leggende, dalle storie (17), dunque? Ecco perché si può, si deve, anche sognare la neve a Napoli per il giorno di Natale. Solo così si può riuscire a vederla cadere, non soltanto fuori, dal cielo in terra, ma nel cuore. Come la costruzione artigianale del presepe è un’azione esterna che attende una trasformazione interna, infatti, così la neve di Natale: «è nevicata del cuore» (34.155), un sentimento, non un fatto. Come questo romanzo teologico: un sentimento, non un racconto, un’esperienza non una storia.