Molti scenari si stanno creando e rapidamente dissolvendo, come le figure di un caleidoscopio, nel quadro politico. Ripartono i giochi come un video bloccato in fermo immagine i cui protagonisti ricominciano a muoversi – anzi, si mettono a correre – appena premuto il tasto “play”. Prima i pour parler neppure troppo coperti Fini-Veltroni sulle regole di un confronto che alla prossima partita potrebbe – forse – vederli impegnati in prima persona, poi la crisi di governo scampata ma pur sempre incombente, quindi Prodi che a sorpresa dichiara la riforma elettorale una priorità “da risolvere insieme all’opposizione”, infine – salvo altre novità dell’ultim’ora – la (quasi) ritrovata unità socialista in pole position con l’idea, non si sa quanto praticabile, di andare incontro a quei diessini, elettori ed eletti, che proprio col Partito Democratico non ci vogliono stare. E’ vero che processi politici di questa portata sono lenti ad avviarsi quanto a fermarsi, ma l’impressione è che il discorso chiave a questo punto non sia quello delle ricomposizioni politiche ma quello della riforma elettorale. Si tratta in sostanza – anche per il comune elettore – di capire come orientarsi tra concetti ostici, che sanno tanto di schemi di formazione di rugby, come il doppio turno alla francese, il sistema tedesco o il metodo spagnolo. Capire, cioè, quanto siano diversi tra loro e che cosa ciascuno di essi potrebbe assicurare dal punto di vista delle esigenze, in sé contrapposte, della governabilità e della rappresentatività
Bisogna ammettere che c’è un che di affascinante nell’idea che vecchie forme-partito, alcune delle quali saldamente ancorate nella tradizione del ‘900 italiano, confluiscano in un soggetto politico con una massa critica capace di attrarre più della somma dei suoi componenti. Ma per non commettere l’errore di finire vittima delle idee di cui ci si è innamorati, bisognerebbe capire prima a quali condizioni questa scommessa può davvero essere vincente.
L’idea del Partito Democratico (così come quella, in varie forme adombrata, di un Partito delle Libertà o di una federazione di centro destra) nasce in pieno Mattarellum, la legge elettorale prevalentemente maggioritaria con cui si è votato in Italia dal 1994 al 2001, e se fosse stato possibile attuarla in costanza di quel sistema elettorale sarebbe probabilmente risultata vincente. E’ dubbio, però, che quel sistema possa tornare ancora in vigore. E perciò, come sembrano indicare le ultime mosse di Prodi, il metodo giusto dovrebbe essere quello di scegliere “prima” come svolgere le elezioni e “poi” come organizzarsi per vincerle.
L’Araba Fenice del sistema ideale
Se esistesse una legge elettorale migliore in assoluto probabilmente si sarebbe affermata, con il tempo, in tutte le democrazie parlamentari. Infatti non esiste: ci sono sistemi che, volendo schematizzare in due le variabili in gioco, avvicinano la “coperta corta” dal lato della governabilità piuttosto che da quello della rappresentatività o viceversa. E’ di questo che occorre ragionare.
La proporzionale che ha retto il Belpaese per un quarantennio, con i suoi collegi relativamente grandi e un più o meno ampio ricorso al voto di preferenza, assicurava in teoria che il Parlamento fosse una riproduzione pantografata della distribuzione delle idee tra gli italiani, perlomeno a livello di macroschieramenti. All’interno dei quali la faccenda era più complessa, con altri fattori (clientelari in primis) a farla da padroni.
Questo sistema, a meno che non ci sia un partito che abbia più del 50% dei consensi, obbliga le forze politiche a contrattare in sede parlamentare per esprimere una coalizione di governo in grado di ottenere la fiducia. Per cui, è perfetto per quelle situazioni, del tipo di quella in cui si trovava l’Italia sconfitta in guerra e spaccata a metà tra cattolici e socialcomunisti, in cui è opportuno allontanare la conflittualità il più possibile dai cittadini. Inoltre conferisce ai partiti di centro e dintorni, in grado di spostarsi agevolmente tra una coalizione e l’altra, un potere molto maggiore rispetto al peso elettorale, e quindi incentiva la frammentazione partitica specialmente in quest’area (un piccolo partito all’estremità è invece facilmente “ghettizzato”: l’ideale per tenere fuori i postfascisti da ogni possibile governo).
Per questa via favorisce la cristallizzazione del potere a dispetto dell’ingannevole instabilità dei governi, e dunque col passare del tempo determina un grado di consociativismo (e, en passant, di corruzione) sempre crescente. Quanto più sorge l’esigenza di combattere questi fenomeni, e quindi affermare un principio di responsabilità politica (se sbagli, vai a casa), tanto più il sistema si rivela inadatto.
Il “Mattarellum”
Per questo motivo, sull’onda di Tangentopoli e della connessa indignazione popolare (che si nutriva anche della spaventosa crisi economica dei primi anni 90 di cui la classe politica fu causa ma anche capro espiatorio), Mario Segni ebbe buon gioco nella promozione di un referendum che favorisse l’introduzione di un sistema maggioritario basato su nuovi collegi uninominali. Per accontentare, però, i piccoli partiti e soprattutto fornire una scialuppa di salvataggio ai potenti che non fossero risultati eletti nel proprio collegio, fu prevista una quota proporzionale con un meccanismo di scorporo che impedisse che questa andasse a favore di chi avesse già vinto al maggioritario (al Senato la cosa funzionava diversamente, ma con stesso scopo e stessi effetti).
Pur essendo “ibrido”, il Mattarellum (dal nome del suo “inventore”), è riuscito ad incentivare la formazione di coalizioni contrapposte: proprio alla prima prova, Mario Segni, dimostrando di non aver capito la ratio della riforma da lui voluta, si presentava con uno schieramento di centro, ed in pratica consegnava la vittoria elettorale ad un centro-destra non certo maggioritario nel Paese.
Ed anche in seguito, nelle due tornate successive in cui si è votato con questa legge, hanno vinto le coalizioni più coese, o almeno quelle che tali cercavano di apparire fino al giorno delle elezioni. Dunque, il maggioritario a turno unico (con correzione proporzionale o meno) o lavora su un sistema in cui ci sono pochi grossi partiti o gioca a favore dell’accordo preelettorale tra partiti più piccoli, e – nel lungo termine – della loro aggregazione. Fino a che, però, questo ultimo evento non si sia creato, e i suoi tempi dipendono molto da fattori endemici tra cui il grado di ideologizzazione dell’elettorato (da noi elevatissimo, e non solo per via di 40 anni di proporzionale…), i partiti maggiori delle coalizioni governano sotto il ricatto dei minori, sia al centro dello schieramento (e qui una norma di salvaguardia potrebbe impedirlo) sia agli estremi.
Non è quindi un caso che per le sorti dei governi della Seconda Repubblica siano stati più determinanti la Lega e Rifondazione comunista che non Forza Italia e i DS. D’altronde, l’eletto nel collegio uninominale risponde ai propri elettori più che al proprio partito o alla propria coalizione, e ciò non è sempre un male, salvo il caso in cui l’indipendenza, più che rispondere a un’esigenza politica reale, diventa un alibi per accedere a una sorta di irresponsabilità. Rimane il fatto che quando l’aggregazione preelettorale ha retto, il sistema ha garantito un governo stabile: peccato che la cosa sia accaduta una volta sola (Berlusconi 2001/2006).
Il “Porcellum”
Temendo che la sinistra avesse imparato la lezione lo stesso Berlusconi, dopo una serie di elezioni locali ed europee perse e visto che i sondaggi lo davano nettamente in svantaggio per le politiche, prima di avviare una campagna di propaganda superaggressiva allo scopo di recuperare quanto più consensi possibile, ha varato una legge elettorale che consegnasse il Paese all’ingovernabilità. La “porcata” (ipse dixit) di Calderoli (peggiorata da una correzione fatta a seguito di osservazioni del Presidente Ciampi) è stata concepita a due scopi precisi: garantire la permanenza in parlamento ai fedelissimi delle segreterie di partito e rendere, al limite, ingovernabile il Paese. Perciò il sistema è proporzionale, con collegi molto grandi, senza voto di preferenza, e con il premio di maggioranza calcolato in maniera diversa per le due camere, e non si può certo dire che non abbia ottenuto lo scopo per cui era stato disegnato.
Ma adesso che si è lasciato al centrosinistra l’ingrato compito di avviare il risanamento del bilancio, adesso che le contraddizioni del sistema hanno potuto fare il loro lavoro su una maggioranza parlamentare risicata, adesso che si è di nuovo in testa nei sondaggi, beh, forse si possono apportare quei correttivi che consegnino alla destra altri 5 anni di governo blindato per fare bene quello che gli pare, cioè gli affari del Dominus.
A questo punto la tentazione di lasciare tutto com’è sarebbe forte, e se Prodi fosse un irresponsabile vi cederebbe. Ma non lo è, anche se giustamente ha dichiarato che la riforma si fa condivisa o non si fa. E’ lecito sperare che mantenga il punto oppure ne faccia una che convenga anche al centrosinistra, oltre che al Paese.
Ma esiste? La polemica tra il politologo Sartori e il politico Mastella sul Corriere della sera ha mostrato quali sono i veri nodi del problema. Una legge ideale dovrebbe prevedere, dice giustamente Sartori, uno sbarramento consistente che escluda i piccoli partiti e un premio di maggioranza razionale. Ma una legge di questo tipo non sarà mai approvata a causa della opposizione degli stessi piccoli partiti. Si tratta quindi di capire in che modo si possa realizzare una ragionevole mediazione tra le esigenze della governabilità e quelle della rappresentatività. Senza dimenticare, comunque, che in mancanza di una riforma costituzionale che elimini il bicameralismo perfetto (e cioè l’equiparazione totale del Senato alla Camera nel voto di fiducia e più in generale nel procedimento di formazione legislativa), anche una legge elettorale “ideale” lascerebbe comunque il nostro sistema politico esposto a defatiganti procedure parlamentari e privo di una reale governabilità.
Si capisce, quindi, come mai la nostra classe politica si sposti spesso in trasferta alla ricerca della ricetta migliore. In effetti, di esempi di sistemi elettorali che hanno assicurato contemporaneamente governabilità, alternanza democratica e rappresentatività ideologica è piena la storia europea. Ovviamente, tutte queste cose insieme “al massimo livello” non sono possibili. La coperta della legge elettorale è, abbiamo visto, sempre troppo corta. Ma in un mix accettabile conciliare queste diverse e spesso opposte esigenze è possibile: così è avvenuto e avviene in Gran Bretagna, Francia, Germania e Spagna, per restare su Stati di dimensione paragonabile alla nostra. Proviamo a vedere.
1. L’uninominale all’inglese
Tanti collegi quanti deputati da eleggere. Punto. In ogni collegio vince chi ha raccolto la maggioranza relativa dei voti, gli altri a casa. Chiaro che questo sistema esige un numero limitato di grandi partiti, e se non li trova ne favorisce la creazione. Se fosse politicamente possibile introdurlo (o anche reintrodurre il Mattarellum, magari con una quota proporzionale ridotta se non azzerata, insieme ad una correzione del bicameralismo perfetto), allora si che la scelta di creare DUE PARTITI UNICI sarebbe azzeccatissima. Avremmo il Partito Democratico contro il Partito delle Libertà, e chi resta fuori relegato nelle migliore delle ipotesi a comparsa in Parlamento (la Lega, che avrebbe comunque qualche eletto al nord), o declassato a movimento extraparlamentare (l’estrema sinistra). Una situazione che può anche piacere a qualcuno ma non certo ai tanti partiti medio-piccoli esistenti – che non approveranno mai un sistema del genere – e neanche alla maggioranza dei nostri elettori, che tengono molto alla loro appartenenza politica e ideologica.
2. Il sistema spagnolo
E’ un sistema proporzionale, però in realtà grazie ai collegi molto piccoli è come se avesse una fortissima soglia di sbarramento: se in un collegio si devono eleggere 5 deputati, già sotto il 20% si rischia la sconfitta e sotto il 10% si è quasi sempre fuori. Al di sotto dei 5 deputati il confine tra proporzionale e maggioritario si fa sempre più debole: con un eletto per collegio saremmo di nuovo al sistema inglese. Questo sistema è ancora più improbabile venga introdotto dalle attuali forze politiche, anche se forse piacerebbe di più agli elettori, salvaguarderebbe i partitini a forte connotazione territoriale (se il mio 3% nazionale è concentrato in pochi collegi, lì eleggo deputati – ed infatti in Spagna c’è una forte esigenza di tutela delle nazioni catalana, basca, valenciana, eccetera), e favorirebbe l’aggregazione dei partiti piccoli in partiti medi piuttosto che la creazione di partiti grandi. Insomma, ci si potrebbe spendere per la sua introduzione, ma occorrerebbe ridisegnare tutti i collegi, e soprattutto abbandonare il progetto del Partito Democratico.
3. Il doppio turno alla francese e la legge sull’elezione dei sindaci in Italia
Il maggioritario alla francese è a doppio turno perché in ciascun collegio uninominale, se nessun candidato raggiunge la maggioranza assoluta dei voti, i due più votati vanno al ballottaggio. Più o meno come avviene oggi per l’elezione dei sindaci in Italia: forse la legge elettorale comunale è l’unica che abbia mai funzionato nel nostro Paese.
Questo meccanismo infatti contempera benissimo le esigenze di rappresentatività con quelle di governabilità: al primo turno tutti i partiti, anche i più piccoli, si presentano per conto loro; al secondo turno accedono i due candidati più votati per ciascun Comune, il vincente divide il 60% dei seggi del consiglio comunale in proporzione tra le liste che hanno deciso di sostenerlo al ballottaggio, il restante 40% dividendosi in proporzione tra le altre liste. In questo modo i partiti piccoli hanno comunque una rappresentanza in ragione del loro peso elettorale, leggermente amplificata o leggermente ridotta a seconda che abbiano appoggiato o meno il candidato vincente. Il quale però ha una maggioranza solida a cui appoggiare la responsabilità di governo, con il non trascurabile effetto collaterale che il tempo delle “contrattazioni” coi soggetti politici vicini ma non organici al proprio progetto politico non è quello dilatato del pre-campagna (come nel mattarellum) né quello enorme e improprio del Parlamento (come nei vari proporzionali, in cui – come si vede anche dalla cronaca odierna – i partiti si comportano sempre come si fosse in campagna elettorale, specie quelli dotati di potere di ricatto), ma quello ristretto dei pochi giorni di intervallo tra il primo e il secondo turno.
Preso così com’è, il sistema francese “puro” favorisce una drastica riduzione del numero dei partiti e non garantisce la governabilità: cioè, non ha quello che ci serve e non sarà mai approvato dai partiti piccoli. Il sistema per l’elezione dei sindaci italiani mantiene invece la riduzione drastica delle contrattazioni tra i partiti ma in più garantisce anche una presenza ai partiti piccoli e una maggioranza solida al vincitore.
Il problema è che questo sistema non si può applicare tout court alle elezioni nazionali, nelle quali in ogni collegio viene eletto un singolo deputato, e non un sindaco insieme al consiglio comunale. La soluzione sarebbe prevedere, a fianco o al posto dei ballottaggi dei singoli collegi, un unico ballottaggio nazionale tra i leader di coalizione che assegni al vincente un bonus per governare, attribuibile tramite un listone proporzionale nazionale oppure con il recupero dei migliori perdenti nei collegi. Peccato che in un testa a testa nazionale un Berlusconi non fortemente ridimensionato da una seria legge sul conflitto di interessi risulterebbe troppo avvantaggiato perché il centrosinistra si possa permettere di sponsorizzare questa soluzione prima della sua uscita dalla scena politica.
4. Il sistema tedesco
Il sistema proporzionale alla tedesca, con una soglia di sbarramento vicina al 5%, è attualmente quello che ha maggiori probabilità di essere adottato, perché in una logica di compromesso scontenta un po’ tutti ma non ha il veto assoluto di nessuno: i micropartiti possono aggregarsi, il centro perseguire i propri sogni di dominio di democristiana memoria. E siccome qualunque legge è meglio dell’attuale, ci si potrebbe anche accontentare, purché:
venga reintrodotto in qualche modo il voto di preferenza (magari unica, per non versare troppa benzina sulla cenere mai spenta del clientelismo), per mitigare il potere delle segreterie nazionali dei partiti;
venga cancellato (cosa non facile perché serve una riforma costituzionale) il bicameralismo perfetto (la fiducia della Camera deve essere sufficiente per governare);
venga previsto un voto di coalizione accanto a quello di lista e un premio di maggioranza congruo e coerente (per evitare un caso Merkel, da noi letale…).
La scelta “delle gomme”
Non ci sogneremmo neanche lontanamente di sindacare la scelta politica e ideologica di chi intende finalmente far confluire le eterogenee culture riformiste italiane in un partito che potrebbe addirittura far da battistrada ad un totale rinnovamento dello scenario europeo. Il problema italiano è ancora uno, però, ed ha un nome e cognome: fino a che viene consentito che sullo scenario politico operi un tale coacervo di potere economico e interessi privati concentrati su un solo individuo non ci si può permettere il lusso di consegnargli di nuovo lo scettro del comando.
Quindi, di qualsiasi scelta va prima valutato il peso strategico e poi tutto il resto. Un po’ come nello sport: nel golf scelgo la mazza a seconda del tiro che devo fare, nello sci la sciolina dopo aver visto la neve che c’è, nei motori le gomme adatte al clima e al terreno.
In particolare, tra i vari sistemi che abbiamo visto, l’uninominale a turno unico, anche corretto come nel Mattarellum, andrebbe benissimo se si potesse affrontarlo con un partito unico, mentre in un proporzionale con microcollegi o in un doppio turno alla francese il partito unico può reggere anche se non dà vantaggi apprezzabili rispetto alla semplice coalizione di partiti medi con identità separate.
Nel sistema attuale invece, che privilegia il senso di appartenenza ideologica dell’elettore, unire realtà eterogenee potrebbe dar vita a un soggetto che prende meno voti della somma dei suoi componenti. E la cosa non cambia con una soglia di esclusione alla tedesca, che semmai spinge all’unione di forze più piccole, come dimostrano i recenti tentativi, non si sa quanto destinati al successo, di riunificare la diaspora socialista. Infatti già la Stefania Craxi, per quello che conta, ha detto no: dobbiamo restare con Forza Italia e con Berlusconi, “hic manebimus optime”. E si capisce.