I’ pputive veré tutti li juorne:
ascivan a’ int’e vasce, miez’annure,
currevene p’a via, e addoss’ e’ mure,
appise arete e’ tram, p’a Riviera
de’ sette d’a matina, fin’ a’ sera,
vestute sulo cu’ nu’ cazunetto,
l’uocchie e’ carbone, e cu’ na’ risa m’pietto…
Se ne jeveno tutt’ a’ la marina,
appress’ a e’ piscature e’ Margellina;
se jettavano a mmare a copp’e scuoglie,
putev’ esse Pusilleco o Curoglio…..
Tu vuò sapé mo’ si ce stanno ancora…
nu m’è ffa sti’ dimanne, nunn’ è ora:
sì, è o vero ca mo’ e’ ccose so cagnate,
e e tiemp’ antiche c’è simme scurdate;
e’ o vero, sì, ca tutto adda fernì,
ma i’ mo’ stu’ fatt’ cca te llaggia dì:
o’ scugnizz’ nun cerca a’ carità,
pecché è o’ vero padrone d’a città:
po’ esse figl’e ntrocchia, o figl’e’ Re,
ma Napule te dice: è figlio a mmé!
Scritto di getto, questo sonetto rappresenta uno sfogo denso di nostalgia per immagini care, osservate innumerevoli volte e rimaste incise nel cuore, connaturali al tempo che fu e compagne ai ricordi degli anni migliori dei napoletani oggi non più giovani.
Vi prende corpo tutto l’affetto di una persona più fortunata che, guardando ai figli di una città travagliata, sente la commozione sommergerla e l’animo addolcirsi verso questi fratelli sventurati che il destino ha posto al gradino sottostante, mentre per ingegnosità, duttilità sociale, adattabilità ambientale, avrebbero meritato la possibilità di assicurarsi un futuro migliore rispetto alla realtà dei mille espedienti con cui dovranno barcamenare nelle acque della vita.
Oggi gli scugnizzi sono spariti, insieme ai tanti aspetti della Napoli di ieri e dell’altro ieri, subissati dalle monotone immagini odierne della massa uniforme ed amorfa, che già sembra anticipare gli scompensi drammatici prospettati nelle lucide visioni di tanti romanzieri.
E già l’incipit ci muove a simpatia, in quel “t’arricuorde” ripetuto, a voler smuovere i ricordi più segreti custoditi al fondo della memoria: questi ragazzi e bambini che scarrozzavano per la città in equilibrio sui paraurti posteriori di tram e filobus fanno parte della nostra storia. “ascevan a’ int’e vasce, miez’annure”, la caratteristica dello scarso vestiario avrebbe accompagnato la maggior parte di loro per l’intera esistenza; “l’uocchie e’ carbone” ad attestare la loro origine verace, senza mezze misure; “se jettavano a mmare a copp’e scuoglie”, a chi è privo di mezzi di fortuna non resta che sfruttare al meglio le uniche ricchezze che la natura ha concesso – quelle naturali – e le scogliere della Litoranea, di Mergellina, di Posillipo, hanno visto crescere sulle proprie asperità innumerevoli generazioni di partenopei. Il mare è stato lo sbocco naturale per le impossibili angustie e calure dei “vasce”di provenienza.
Erano quelli i tempi in cui le menti traboccavano di buoni sentimenti, la filosofia sopperiva alla mancanza di quattrini, ai capolinea dei mezzi pubblici fiorivano discorsi spontanei tra gli occupanti nell’attesa – sempre lunga – che giungesse il conducente. I tempi in cui alle fermate dei bus nascevano commenti tra perfetti sconosciuti, e non era impossibile che qualcuno raccontasse la storia della sua vita all’occasionale vicino. Tempi in cui per poche lire, al posto dei troppi euro di oggi, si assicurava il necessario giornaliero per la famiglia. Ignoti erano l’esasperazione spinta, l’arrivismo ad ogni costo, la ricerca del guadagno facile, e “na’ risa m’pietto” non era caratteristica dei soli scugnizzi. La coralità, attestata da tante narrazioni, canzoni, commedie, fatti di cronaca grandi e piccoli, era davvero uno dei migliori patrimoni posseduti dagli abitanti di questa antica capitale.
Bastava davvero poco perché lo scugnizzo, il cui occhio non era nemmeno lontanamente sfiorato dalla tristezza per un domani quanto mai incerto, si sentisse e fosse – indiscutibilmente – “o’ vero padrone d’a città”.
Un sentito grazie all’Autrice per aver condiviso con noi questo ricordo della Napoli di una volta, gravido di pathos e partecipazione genuini.
Luigi Alviggi